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Il difficile momento storico che stiamo attraversando sembra essere caratterizzato, tra le altre cose, da un ritorno sulla scena pubblica di fenomeni provenienti dalle pagine più buie del Novecento. Interrogarsi sul fascismo, oggi, appare sempre più necessario. Interrogarsi sull’antifascismo, sempre più urgente.
Ne abbiamo parlato con Enrico Papa, sociologo e ricercatore etnografico. Interessato ai temi della nonviolenza e della comunicazione in chiave interdisciplinare, recentemente ha indagato il rapporto tra fascismo/violenza e antifascismo/nonviolenza.
Nel tuo lavoro di ricerca militane ti sei posto il problema di come oggi l’antifascismo possa acquisire maggiore incisività ed efficacia, in un’epoca in cui “il fascismo sembra essersi adeguato alla crescente complessità del reale, portando a una metamorfosi del fascismo stesso”. Come si lega questo discorso al tema della nonviolenza?
È noto come storicamente l’antifascismo abbia assunto anche connotazioni violente: la lotta armata è diventata una tragica necessità, là dove una violenza maggiore – fascista – si istituzionalizzò in regimi totalitari. Credo però che oggi, nel combattere il fascismo, non possiamo non tener conto dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti. L’antifascismo, oggi, necessita di strumenti adeguati ai tempi e alle sensibilità correnti, e a mio avviso una violenza esplicita e diretta non è più funzionale allo scopo. Dico di più: non lo è neppure una violenza implicita e sottesa.
A cosa ti riferisci quando parli di “violenza implicita e sottesa”?
Un esempio potrebbero essere le accuse di stupidità o scarsa intelligenza, spesso malcelate dietro al classico invito di tornare sui libri a studiare. In realtà non sappiamo nulla della biografia della persona che attacchiamo verbalmente, di com’è arrivata a rivolgersi a un’ideologia in cui, molto probabilmente, trova sicurezza contro l’incertezza del presente. È probabile che affermazioni di quel tipo la faranno sentire attaccata sul piano personale, poiché a nessuno piace sentirsi dare dell’ignorante. Difficilmente la reazione sarà “avete proprio ragione, sono davvero un idiota, ora leggerò più libri e smetterò di essere fascista”. Più realisticamente, percependo minacciata la propria autostima, tenterà di ricomporla, radicalizzandosi con più vigore e contrattaccando con più forza.
La domanda che come antifascisti dovremmo porci, ogni volta che agiamo in nome dell’antifascismo, è: quest’azione ha come risultato concreto e osservabile una riduzione del fascismo? Se la risposta è no, o se addirittura l’azione ha come effetto emergente – non previsto e non voluto – un aumento del fascismo stesso, allora a mio avviso qualcosa non sta funzionando.
Il filosofo Karl Popper ha formulato il cosiddetto “paradosso della tolleranza”, sostenendo che una società aperta e tollerante deve essere intollerante con gli intolleranti, pena il rischio della sua scomparsa per mano degli intolleranti stessi. Cosa ne pensi a riguardo?
Sono d’accordo, l’antifascismo deve essere intollerante per definizione nei confronti del fascismo. Tuttavia dovremmo chiederci che cosa intendiamo per intolleranza. A mio avviso, la violenza nella nostra società è talmente pervasiva da condizionare il senso stesso delle parole. Così, intolleranza suona come sinonimo di repressione, quando in realtà non ci sarebbe nulla di violento nell’intolleranza: questa è semplicemente una presa di posizione, designa l’avversione al fascismo, è l’impulso che ci muove a schierarci, a non rimanere indifferenti. Ma non è scritto da nessuna parte che il modo in cui lottiamo contro il fascismo debba essere necessariamente violento.
L’antifascismo, quindi, dovrebbe essere al contempo intollerante e comprensivo, nel senso che deve comprendere perché una persona assume atteggiamenti e comportamenti fascisti. Il che, ovviamente, non significa giustificare. Comprendere e giustificare non sono sinonimi.
A tuo avviso come può l’antifascismo contrastare efficacemente il fascismo oggi?
Credo che prima di tutto sia urgente risemantizzare l’antifascismo su tre elementi: riflessività, critica e nonviolenza. In particolare, è sulla comunicazione nonviolenta in quanto prassi relazionale che trovo opportuno soffermarsi. È necessario spostarsi da una comunicazione che definirei “oscura”, che è quella a cui siamo solitamente abituati, a una comunicazione “chiara”, empatica.
La prima è retorica, fatta di argomentazioni, col dichiarato intento di persuadere l’altro. Magari può funzionare nel breve termine, ma a lungo termine credo non paghi. La seconda sospende temporaneamente il discorso su ciò che è giusto e sbagliato, lo mette tra parentesi: non perché giusto e sbagliato siano relativi, ma semplicemente per cercare una connessione profonda con l’altro, basata sulle emozioni e sui bisogni delle persone coinvolte. Ciò permette prima di tutto di incontrarsi e di riconoscersi come esseri umani.
Penso che non sia per mezzo della ragione che una persona vicina al fascismo si allontanerà da quelle posizioni. Un cambiamento è possibile solo facendo sentire all’altro, sulla sua pelle, i gradevoli effetti di apertura, accettazione e rispetto integrale della persona che caratterizzano l’antifascismo in quanto intimo, radicale e imperativo ripudio della violenza fascista.
Mentre cerchiamo di comunicare in modo nonviolento non rischiamo di cadere nel paternalismo?
Tutto sta nelle reali intenzioni dietro alle nostre parole. Possiamo essere carini e gentili quanto vogliamo, ma se il nostro tacito proposito è quello di rieducare l’altro, di redimerlo, di fargli cambiare idea, abbiamo già fallito in partenza. Perché l’altro avvertirà questa nostra postura, che potremmo definire manipolatoria, e a quel punto difficilmente avrà fiducia in noi.
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