Christian Felber: “Le imprese devono essere al servizio del bene comune” – Meme #22
Seguici su:
Ha 46 anni, è austriaco e si definisce un pensatore olistico e un riformatore dell’economia. Il suo modo di fare è informale e piacevole. Gli piace uscire dagli schemi: durante il convegno che ha seguito la nostra intervista presso l’Università di Padova, per dimostrare una sua teoria in maniera empirica ha… fatto una verticale, parlando per alcuni secondi capovolto a testa in giù come un acrobata fra gli sguardi divertiti di studenti e professori!
Eppure il messaggio che comunica con ironia e leggerezza ha le potenzialità per cambiare il mondo. Un mondo che oggi ruota intorno all’economia, questo è un dato di fatto. Ma quale economia? «Ci sono due possibilità principali», ci spiega Christian Felber, fondatore del movimento dell’Economia del Bene Comune. «Una si rifà alla concezione greca di oikonomia, che persegue il benessere per tutti, quindi il bene comune. Questa è la vera economia e il modello a cui ci ispiriamo. Al contrario, l’altra possibilità consiste nell’aumentare la quantità di denaro o accumulare capitale. Questo è possibile, ma non è oikonomia. È krematistikè, che oggi chiamiamo capitalismo».
Il movimento dell’Economia per il Bene Comune è una grande rete che oggi coinvolge centinaia di aziende ed enti pubblici in più di trenta paesi ed è nata nel 2010 in Austria, Alto Adige e Germania meridionale. Il suo obiettivo è proprio quello di abbandonare la crematistica su cui si basa il modello capitalista e ricondurre l’economia – e con essa le imprese, che sono la sua espressione più concreta e diffusa – alla concezione originaria, in base alla quale il legittimo profitto è vincolato a un impatto positivo su aspetti quali ambiente, società, democrazia, relazioni di genere e dignità umana.
Secondo Felber dunque, non deve essere consentito guadagnare e al tempo stesso danneggiare la comunità. Ma come fare a impedirlo? Il movimento ha elaborato uno strumento che lo consente: il bilancio del bene comune. Fondato su una ventina di indicatori non strettamente economici come sostenibilità ambientale, trasparenza e condivisione delle decisioni e sottoposto all’auditing di consulenti esterni appositamente formati, questo documento misura in maniera chiara, replicabile e comparabile l’impatto dell’azienda sul territorio, sull’ambiente e sulle persone.
Ma questo non basta. Il modello d’impresa capitalista si basa sullo sfruttamento, sull’esternalizzazione dei costi negativi, sulla scarsa attenzione alle condizioni dei lavoratori. Tutto ciò produce un vantaggio competitivo. Il modello proposto da Felber interviene proprio su questa disfunzione, premiando chi gestisce la propria attività in maniera virtuosa: «Migliori sono i risultati del bilancio del bene comune, maggiori sono i vantaggi economici per l’azienda: paga meno tasse, ha la precedenza nei finanziamenti pubblici o comunque gode di un trattamento privilegiato».
Il tutto deve essere caratterizzato dalla massima trasparenza. A questo scopo è stata ideata una “etichetta della sostenibilità”, da apporre su qualsiasi prodotto, che riporti in maniera chiara e schematica l’impatto etico e ambientale dell’azienda produttrice. Un provvedimento concreto che va nella direzione indicata da Christian Felber: «Una visione d’insieme non funziona se non si compiono piccoli passi per le aziende private, per gli enti pubblici, per i singoli cittadini e per le università al fine di compiere questa missione».
È incoraggiante constatare come anche lui consideri l’Italia un paese precursore in questo processo di riforma del mondo economico e imprenditoriale. «La prima cosa che mi viene in mente è che l’Italia è già un modello per gli altri paesi nel creare leggi più lungimiranti», ci confessa in conclusione della nostra chiacchierata. «Sto pensando al modello cooperativo, alle società benefit, alla prima menzione delle banche etiche in una legge nazionale: tutto questo è avvenuto qui. Oggi le aziende virtuose hanno uno svantaggio competitivo, che però potrebbe trasformarsi in un vantaggio grazie al modello che abbiamo elaborato. E se l’Italia fosse il primo paese ad approvare una legge che consenta questo?».
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento