Basta microplastiche nelle nostre acque! Da Biella una petizione per salvare il pianeta
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Biella - “Attiviamoci affinché in Italia venga approvata una legge a protezione dei nostri mari, che darebbe un forte impulso economico alla nostra filiera tessile, notoriamente legata alla produzione di capi in fibre naturali come il cotone, la lana e la seta e che quindi crei nuovi posti di lavoro”: è questo quanto si legge nella petizione Basta microplastiche nelle nostre acque, lanciata su Change.org da Giovanni Schneider, amministratore delegato del Gruppo Schneider (e della Pettinatura di Verrone).
Cambiare il mondo a partire dagli abiti che indossiamo e dalla produzione, quindi, innestando una sensibilizzazione sociale sui temi ambientali e sugli strumenti che possano ovviare alle problematiche green. Una delle via per contrastare, ad esempio, l’inquinamento dei mari passa dall’acquisto e dalla produzione di capi non sintetici: a questo proposito, nella petizione, viene spiegato come la plastica arrivi negli oceani anche attraverso le lavatrici, in quanto i vestiti composti da tessuti sintetici rilasciano nei cestelli centinaia di migliaia di microfibre plastiche.
In ogni lavaggio, quindi, si fa un potenziale danno ai mari, con le particelle inquinanti che passano dalle fogne ai corsi d’acqua nostrani. Il danno, come intuibile, è all’intero ecosistema, salute dell’uomo compresa. La plastica, infatti, viene ingerita da molti organismi e animali marini, entrando così anche nella catena alimentare.
In quest’ottica, segnali concreti sono arrivati dall’America: in California è in dirittura d’arrivo la legge che renderà obbligatoria l’etichettatura dei capi d’abbigliamento che contengono oltre il 50% di fibre sintetiche; lo Stato di New York ha presentato il disegno di legge AB 1549 (se approvato entrerà in vigore a gennaio 2021) che prevede come nessuna persona, azienda o associazione possa vendere in negozio alcun capo di abbigliamento – scarpe e cappelli esclusi – realizzato con tessuto composto per più del 50% di materiale sintetico senza un’apposita etichetta informativa.
Il disegno di legge in questione, come si legge nella petizione, fornisce anche una chiara definizione di microfibra plastica, ovvero ‘una piccola particella sintetica di forma fibrosa, lunga meno di cinque millimetri, che viene rilasciata nell’acqua attraverso il normale lavaggio di tessuti in materiale sintetico’.
Oltre alle istruzioni previste per la cura del capo, l’etichetta – in forma di cartellino o adesivo – dovrà riportare ben in vista, a beneficio del consumatore, delle informazioni di carattere divulgativo sui possibili danni dati dal lavaggio in lavatrice, consigliando quello manuale.
Elena Schneider, che insieme al fratello sostiene la petizione, è intervenuta ai nostri microfoni e ha messo in luce la battaglia pro-ambiente intrapresa con “Basta microplastiche nelle nostre acque”: “Come in California e a New York – esordisce – il nostro obiettivo è che venga approvata una legge a riguardo anche in Italia. Per questo vogliamo dare più risonanza possibile alla petizione, che attualmente conta oltre 14mila firmatari. Quando i numeri saranno ancor più elevati, la rivolgeremo a Sergio Costa, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
Con la petizione vogliamo anche sensibilizzare il consumatore a guardare l’etichetta dei vestiti, non soltanto per vederne la composizione (spesso sintetica), ma per capire come trattare il capo di abbigliamento nel lavaggio”.
Per limitare l’impatto ambientale, informazione e consapevolezza viaggiano verso la sostenibilità su binari paralleli e trovano la stazione di partenza proprio a Biella, città laniera per antonomasia. Un segnale forte, arrivato dalla provincia piemontese che ha il tessile nel suo DNA, in una tradizione nel segno della continuità. Elena e Giovanni, che hanno lanciato la petizione, sono entrambi imprenditori biellesi impegnati nell’azienda tessile di famiglia.
Le loro ragioni non sono solo di natura ‘territoriale’, ma sono principalmente legate a topic come ambiente e sostenibilità, ai quali l’imprenditrice è sempre stata sensibile. “Mio fratello e io – argomenta – siamo sempre stati toccati da questi temi. Io, ad esempio, ho lavorato con Slow Food e la nostra azienda, già undici anni fa, partecipò a Terra Madre – Salone del Gusto presentando un manifesto per le fibre naturali, firmato da Petrini nel 2008. Carlìn è stato il mio mentore e ho anche scritto la mia tesi di laurea su Slow Food”.
Il legame tra Elena Schneider e Petrini non finisce qui: “Ho sentito – racconta – per la prima volta da lui il termine co-produttore, in sostituzione a quello di consumatore. Si farebbero dei passi avanti se si ragionasse in termine di co-produzione invece che di consumo.
Come le etichette che informano sugli ingredienti degli alimenti, anche quelle nei vestiti avrebbero la funzione di far comprendere l’impatto ambientale e sociale che ha un determinato capo di abbigliamento. Non bisogna far finta che il problema non ci tocchi: siamo tutti co-produttori di ciò che mangiamo e vestiamo. La tracciabilità e la relativa attenzione – conclude – non devono esserci solo sul cibo, ma vanno rivolte anche ai vestiti; bisogna andare al di là della griffe e capire cosa c’è dietro a un marchio. La consapevolezza è fondamentale: estetica ed etica possono coesistere”.
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