5 Apr 2019

Cosa possiamo fare per non sprecare cibo (e non estinguerci)

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti

Obesità da una parte e malnutrizione dall'altra, tonnellate di cibo nella spazzatura e milioni di bambini denutriti. Da anni sentiamo parlare e denunciare lo spreco di cibo ma la questione continua ad essere quanto mai attuale. Come risolverla? Il primo passo è adottare un approccio sistemico al problema. Ne abbiamo parlato con il ricercatore Giulio Vulcano, autore di un recente studio sul funzionamento dei sistemi alimentari.

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Roma, Lazio - La famiglia Rossi ha otto figli, decisamente tanti: due vengono rimpinzati di schifezze e sono sovrappeso, ad uno il cibo viene dato sì e no ogni due giorni e soffre la fame, altri due mangiano solo alcune cose e perciò sono malati. Ogni giorno la famiglia Rossi getta oltre la metà del cibo che acquista e più ne acquista più ne butta via. Roba da chiamare i servizi sociali o la neuro, se la famiglia Rossi esistesse davvero. Per fortuna non esiste una famiglia così squilibrata, in compenso l’esempio descrive la situazione in cui versa l’umanità: due miliardi di persone sono in sovrappeso, quasi un miliardo soffre la fame, quasi due soffrono altri tipi di malnutrizione; produciamo sempre più cibo ma ne sprechiamo sempre di più, tanto che attualmente oltre la metà del cibo si perde.

 

Quello dello spreco alimentare è un problema strutturale dei nostri sistemi di produzione, distribuzione e consumo del cibo: non si tratta soltanto di quanto cibo gettiamo nella spazzatura, ma di dove e in che modo lo produciamo, di come viene distribuito e di come e in che quantità lo consumiamo. Abbiamo intervistato Giulio Vulcano, autore di una recente ricerca sul funzionamento dei sistemi alimentari confluita in parte nel rapporto tecnico dell’ISPRA (Istituto Superiore di Protezione e Ricerca Ambientale) “Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali”.

 

 

La situazione attuale

Affrontare il problema dello spreco alimentare con un approccio sistemico significa da un lato considerare anche gli impatti ambientali e sociali della filiera del cibo, dall’altro prendere in considerazione non solo il cibo che viene gettato, ma anche quello che è utilizzato in maniera poco efficace lungo tutta la catena di produzione, distribuzione e consumo. In questo senso emerge dalla ricerca che il cibo prodotto a livello mondiale sarebbe già oggi sufficiente per sfamare almeno 12 miliardi di persone.

 

Perché ciò non avviene? Per varie ragioni ci spiega Vulcano. Parte di questo cibo, commestibile per l’uomo, viene utilizzato negli allevamenti animali, per produrre carne e latticini. Un’altra parte è utilizzata per i trasporti (biocombustibili) o per finalità energetiche. Poi vi è un’altra parte che effetti viene consumata in eccesso da parte della popolazione umana, con varie ripercussioni sanitarie. Risultato: la catena del cibo risulta molto disfunzionale e sul Pianeta circa due miliardi di persone sono in sovrappeso, di cui 600 milioni sono obese, mentre 823 milioni di persone soffrono la fame (dato che è tornato ad aumentare negli ultimi 3 anni). Ci sono poi problemi di cattiva nutrizione, quindi di assunzione squilibrata di nutrienti fondamentali, acidi grassi, minerali, vitamine.

 

 

La disfunzione dei sistemi alimentari è la principale causa del superamento dei limiti ecologici e sociali di resilienza del Pianeta, che sta mettendo a rischio la sopravvivenza della specie umana. A essa si associa accumulo di gas-serra climalteranti e inquinamento atmosferico, perdita di biodiversità (geni, specie e habitat), consumo eccessivo e inquinamento di acqua, di suolo e di altre risorse naturali (cicli di azoto, fosforo e potassio, perdita di fertilità), immissione di sostanze nocive (pesticidi, antibiotici). Si stima che in Italia circa il 50% (1) della biocapacità del territorio (capacità di rigenerare le risorse naturali e assorbire rifiuti) venga impiegata nello spreco, che riguarda il 60% circa della produzione iniziale di calorie.

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Un problema sistemico

Sovrapproduzione, sovraofferta, sovraconsumo di cibo: le principali cause dello spreco alimentare sono connesse intrinsecamente con la struttura della filiera. Una filiera, ci spiega Vulcano, molto lunga e caratterizzata da colli di bottiglia, ovvero punti in cui pochi operatori controllano delle operazioni fondamentali (nella fattispecie l’accesso alle risorse con le quali si produce il cibo e come lo si distribuisce e commercializza). Con enormi quantità di cibo il flusso caratterizzato da tali strozzature crea inevitabilmente delle congestioni e la produzione di spreco.

 

Da questa concentrazione di potere consegue che ad un piccolo aumento del fabbisogno umano corrispondono grossi aumenti di offerta commerciale e ancor maggiori aumenti di sprechi. Risultato: nel mondo l’aumento degli sprechi è mediamente 32 volte l’aumento del fabbisogno iniziale umano, mentre in Europa mediamente meno del 20% del prezzo finale va agli agricoltori.

 

Come ne usciamo?

Molte delle iniziative che mirano a contrastare il problema dello spreco alimentare si concentrano sul cibo che viene gettato da ristoranti, supermercati, mercati e famiglie. Tuttavia, ci spiega Giulio Vulcano, “queste azioni di recupero, riciclo e redistribuzione del cibo sono utili per venire incontro a situazioni emergenziali e risolvono alcuni problemi ambientali soprattutto legati allo smaltimento, ma riguardano soltanto un piccolo pezzo del problema, il pezzo finale: se non si cambia il funzionamento del sistema complessivo la parte finale continuerà sempre ad avere questi problemi che saranno permanenti, strutturali”.

 

Quindi, cosa possiamo fare? Innanzitutto è necessario accorciare e “rilocalizzare” la filiera, tenendo in considerazione i fabbisogni e le specificità di ciascun territorio, compresa la capacità naturale di fornire risorse e assorbire i rifiuti che produciamo. Anche il modo di produzione è fondamentale: l’agricoltura intensiva ha bisogno di molti apporti esterni, fertilizzanti, pesticidi, per portare avanti la produzione, ottenere grossi volumi e sprechi, mentre una produzione di piccola scala, locale, ecologica spreca molti meno prodotti e risorse. Aggiunge Vulcano che “usare metodologie come l’agricoltura biologica, biodinamica, la permacultura, il sinergico o altre modalità simili sul medio lungo periodo ha la stessa se non una maggior produttività rispetto a dei sistemi intensivi che levano fertilità al terreno”.

 

Un’altra indicazione fondamentale è per la ristrutturazione della dieta, che nei paesi sviluppati tende ad avere un eccesso di derivati animali, di prodotti ipercalorici e ipertrasformati, di grassi insalubri, zuccheri, sali.

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Filiere a confronto

Esistono già filiere diverse, che minimizzano gli sprechi, forniscono cibo più sano, impattano molto meno sugli ecosistemi. Dall’analisi della letteratura internazionale e dai dati raccolti risulta che esiste un’enorme differenza, in termini di spreco alimentare, fra filiere di tipo convenzionale basate sulla produzione agroindustriale e la Grande Distribuzione Organizzata da un lato e dall’altro su filiere corte basate su metodi di agricoltura ecologica a piccola scala e su forme di distribuzione locale come i mercati contadini e la vendita diretta. In queste seconde gli sprechi si riducono a circa un terzo di quelle convenzionali.

 

Gli sprechi si riducono ulteriormente se ci addentriamo nei mondi dei Gruppi di Acquisto Solidale, delle cooperative di produttori e consumatori (sul modello della Community Supported Agricolture) o di altre forme di economia solidale. Laddove c’è un coinvolgimento maggiore del cittadino consumatore (spesso chiamato co-produttore), in tutto il processo si arriva a sprecare mediamente un ottavo rispetto alla filiera convenzionale, addirittura un decimo nella sola fase di consumo finale. Se nella filiera convenzionale si spreca il 50-60%, in una filiera di piccola scala, locale, ecologica e solidale si spreca fra il 5 e il 10%.

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Consigli per amministratori e cittadini

Cosa può fare un amministratore per migliorare la situazione del proprio comune? E un cittadino quanto può incidere? “Per quanto riguarda un amministratore – spiega Vulcano – è importante introdurre politiche che mirino all’autosufficienza e ristrutturino non solo la produzione, ma anche tanti altri aspetti come il trasporto, il commercio o la pianificazione del territorio. L’amministrazione può esercitare un forte impatto attraverso i suoi acquisti diretti, scegliendo con cura i fornitori delle scuole, degli ospedali, delle mense. Altri aspetti essenziali sono la cura dell’educazione alimentare e riproduttiva”. Altra questione fondamentale è il necessario riequilibrio degli incentivi economici in senso ecologico e solidale.

 

Per quanto riguarda il cittadino “il primo passo è sicuramente informarsi su come viene prodotto il cibo e su come viene distribuito, sugli impatti che questo crea. Informarsi anche sulle realtà alternative, che producono meno spreco alimentare: esistono mercati degli agricoltori contadini di vendita diretta nella mia zona? Esistono gruppi di acquisto solidali o cooperative che mettono insieme produttori e consumatori? Ci sono orti urbani nella mia zona o posso chiedere alla pubblica amministrazione di istituirne? Un aspetto importante è quello culturale: il cibo ha una forte valenza culturale, si porta dietro aspetti identitari, psicologici. A volte tendiamo a dare un valore solo estetico, mercificato, al cibo, slegandolo dai processi reali che ci stanno dietro. Il cibo è prima di tutto un veicolo di sussistenza vitale, è l’equilibrio che abbiamo con l’ambiente che ci circonda, può essere fonte di equità o di ingiustizia sociale, è un elemento centrale per la salute del nostro corpo e della nostra mente.”

 

  1. Nel computo dell’impronta ecologica del cibo vengono considerate anche le risorse sottratte ad altri paesi (ad esempio il mangime utilizzato per nutrire gli animali da allevamento, prodotto al di fuori del territorio italiano).

 

 

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