Economia del bene comune: profitti e benessere per la comunità devono essere collegati
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Padova, Veneto - “Il nostro obiettivo è consolidarci per essere un movimento non solo culturale ma anche reale, di supporto alle imprese”. La dichiarazione d’intenti fornita in apertura del convegno da Lidia Di Vece, nuova presidente della Federazione per l’Economia del Bene Comune in Italia, chiarisce subito il ruolo a cui ambisce questa rete, che nel nostro paese accoglie già decine di aziende.
Ma è possibile mettere in pratica i principi legati bene comune nell’attività di tutti giorni? La risposta è sì! L’analisi della situazione attuale ci dice che non solo è possibile, ma è addirittura necessario. “Le imprese hanno un ruolo importante, hanno una responsabilità intrinseca, non devono fare business per profitto ma per creare valore”, prosegue Lidia Di Vece richiamando il compito che per secoli è spettato agli attori economici, ovvero creare ricchezza e benessere non solo per loro stessi ma per tutta la comunità in cui vivono e operano.
La differenza fra le due visioni del “fare impresa” la spiega con chiarezza Christian Felber, co-fondatore del movimento per l’economia del bene comune e ospite d’onore della giornata: “Aristotele distingueva fra oikonomia, il cui obiettivo era vivere bene, e crematistica, il cui scopo era invece accumulare ricchezza. Denaro e capitale erano solo dei mezzi, mentre oggi sono diventati il fine ultimo”.
Ma come passare dalla filosofia alla pratica? Lo stesso Felber, in chiusura del suo intervento, cita decine di realtà – piccole e medie imprese ed enti locali, anche di dimensioni rilevanti – che hanno deciso di stilare il bilancio del bene comune, un semplice strumento che consente di misurare come e quanto l’azienda ha inciso positivamente sulla comunità durante l’anno.
In fondo è semplice: gli indici di misurazione esistono, basta mettersi d’accordo su quali aspetti devono considerare. Il 72% dei cittadini tedeschi ritiene insufficiente utilizzare come unico indice di misurazione il Prodotto Interno Lordo. È per questo che il PIL va affiancato da altri strumenti che prendano in esame ciò che esso non considera. E uno di essi è senza dubbio il bilancio del bene comune.
Non a caso l’importante incontro di Padova è coinciso con la conclusione del corso 2018/19 per consulente del bene comune, a cui hanno partecipato 18 persone. “Il consulente non è solo uno che ‘spilla i soldi’ – ha sottolineato Lidia Di Vece sfatando un pregiudizio diffuso –, ma una figura che cerca di portare la cultura della sostenibilità e dell’innovazione in azienda”. Il movimento per l’economia del bene comune ha fissato 20 punti cardinali che identificano modello. I consulenti verificano che questi punti vengano rispettati e aiutano le aziende a mettere in pratica le azioni necessarie affinché ciò avvenga.
La transizione verso un’economia più etica e sostenibile deve però avvenire in maniera corale: se da un lato le aziende devono farsi carico singolarmente di questa missione, dall’altro devono cambiare le regole del gioco a livello sistemico. “Successo economico e benessere per la comunità devono essere legati – aggiunge Felber –: non deve essere consentito guadagnare e al tempo stesso danneggiare la società”.
Questo è possibile ed è sempre Felber a spiegare come: “La nostra innovazione è proporre che tutte le organizzazioni debbano dichiarare pubblicamente in che modo e quanto contribuiscono al bene comune. Vogliamo introdurre un’etichetta che renda visibile l’impatto dell’azienda sulla comunità e sull’ambiente”.
L’idea è semplice ed efficace: l’etichetta proposta da Felber dovrebbe accompagnare qualsiasi prodotto o servizio che il cittadino può acquistare, in modo che egli stesso sia in grado di analizzarla e decidere di premiare le aziende più attente al bene comune. Ma non è tutto: “Vogliamo legare il bilancio del bene comune a incentivi di legge: meno tasse, prezzi più bassi, tassi d’interesse più bassi, precedenza, cooperazione, sussidiarietà”.
In questo modo chi ha una condotta etica viene premiato anche dal punto di vista economico. Oggi infatti le aziende che sono più vicine al modello del bene comune hanno costi alti perché non esternalizzano i costi negativi, ma se ne fanno carico. Sembra che le aziende che hanno prezzi bassi siano più efficienti e abbiano un vantaggio competitivo, ma per farlo inquinano, sfruttano i lavoratori, esauriscono le risorse naturali. Tutti comportamenti che non solo sono eticamente inaccettabili, ma generano anche costi collaterali che qualcun altro dovrà pagare.
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