28 Feb 2019

Pacefuturo, quando l’accoglienza origina welfare generativo

Scritto da: Luca Deias

A Biella l'isola che (non) c'è: intervista ad Andrea Trivero, direttore dell'associazione Pacefuturo e responsabile del progetto "Pettinengo, un paese che accoglie" che ci racconta la bellissima storia della realtà biellese che ha attivato processi di inclusione sociale che hanno coinvolto l'intera comunità locale.

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Biella - Può esistere l’isola che non c’è? No, verrebbe da pensare. È un’isola immaginaria, lo dice il nome stesso. Così come non esistono Peter Pan o altri personaggi d’animazione. Quella che stiamo per presentare non è nemmeno bagnata dal mare. Ma allora che isola è? Lasciateci la metafora, perché potrà non essere considerata un’isola, nell’accezione fisica o territoriale del termine, ma è sicuramente una favola.
Come i racconti che evocano la nostra infanzia, ci sono i protagonisti, ostacoli da superare, una morale, gli antagonisti. Sono proprio questi ultimi che potrebbero metterne in dubbio l’esistenza: “E a pensarci, che pazzia/ è una favola, è solo fantasia/e chi è saggio, chi è maturo lo sa/ non può esistere nella realtà”.

E solo su questi iniziali versi dell’intramontabile brano di Bennato che si baserebbe la loro argomentazione. I moderni Capitan Uncino sono sempre più numerosi, pronti ad aizzare la loro ciurma. Di chi è la colpa se la nave ha difficoltà a varcare le onde? Sicuramente dell’ultimo, maledetto passeggero (non marinaio!) che è stato raccolto dalle acque, che si è arrampicato sulla nave per non sprofondare negli abissi. E non importa se è pronto a mettersi a disposizione dell’equipaggio: per ogni imprevisto della navigazione sarà lui il capro espiatorio.

Il riferimento all’imbarcazione può essere duplice: l’Italia intera, o anche micro/macro realtà che fanno dell’accoglienza un’opportunità virtuosa per il bene delle comunità ospitanti. La nave che stiamo per presentarvi viaggia a vele spiegate, nonostante le difficoltà date da alcuni ‘antagonisti’.

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Parliamo dell’associazione Pacefuturo e, nello specifico, di ‘Pettinengo, un paese che accoglie’. Si tratta di un progetto di accoglienza diffusa messo in atto a Pettinengo e in alcuni comuni limitrofi (paesi della provincia di Biella).
Qui i profughi non sono visti e trattati come invasori, ma come compagni di viaggio che si mettono a disposizione della comunità che li accoglie. Ai nostri microfoni Andrea Trivero, direttore di Pacefuturo e responsabile per il progetto di accoglienza, ha messo in luce le tappe del percorso comunitario che caratterizzano il progetto, in un viaggio tra solidarietà e integrazione.

Partiamo con il dietro le quinte del progetto: quando sono arrivati i primi richiedenti asilo?
Pacefuturo ha preso in gestione Villa Piazzo nel 2006, grazie a un comodato d’uso gratuito concesso dall’amministrazione comunale di Pettinengo. Villa Piazzo è una dimora storica di metà ottocento con un ampio parco. Nel tempo sono state organizzate attività culturali sul tema della pace e dell’accoglienza, ma anche pratiche, come il ripristino degli orti, l’apicoltura e la manutenzione del parco della struttura e dei sentieri locali.

Tutto è iniziato con una collaborazione coi servizi sociali: soggetti in condizioni di difficoltà davano il loro contributo occupandosi di questi lavori. Nel 2011, don Giovanni Perini (direttore di Caritas e vicedirettore di Pacefuturo) chiese se era possibile ospitare una cinquantina di profughi, in quanto questi ragazzi si trovavano a Muzzano (BI), dove c’era un problema di posti. In accordo con il parroco di Pettinengo e l’amministrazione comunale li abbiamo accolti per due mesi in due belle strutture del paese: Villa Piazzo e Villa Pasini, di proprietà della Diocesi. Quella fu la prima esperienza realizzata grazie ad una collaborazione con il consorzio locale Filo da Tessere.
Nel 2014, poi, è iniziato il progetto vero e proprio di accoglienza a Villa Piazzo gestito direttamente da noi, con i primi 15 ragazzi (poi diventati 25… e ora 120).

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Il paese come prese la notizia? Destò preoccupazione l’arrivo dei migranti a Pettinengo?
All’inizio la gente aveva paura, c’era una situazione di disagio nei confronti di queste persone. Nel tempo, però, questo timore è del tutto svanito. Oltre ai volontari e ai collaboratori, molti cittadini ci hanno addirittura dato, in comodato d’uso gratuito, alcune loro strutture: ora gestiamo 13 case. Le persone che non vedevano positivamente il loro arrivo, infatti, si sono ricredute dopo averli conosciuti: quando si creano relazioni personali è tutto più facile.

Un cittadino, addirittura, ha accolto un ragazzo – alla conclusione del suo ciclo di permanenza nella nostra struttura – nella propria casa. In generale, credo che, per una realtà chiusa come quella biellese, incontrare un mondo diverso significhi aprirsi al mondo attuale, incontrare l’altro. È un processo di responsabilizzazione della società nei confronti del pianeta. Non abbiamo fatto altro che cercare di mettere in pratica i principi del Terzo Paradiso

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‘Pettinengo, un paese che accoglie’, il nome del vostro progetto parla da sé. Ce ne illustri le linee guida?
Il primo obiettivo è sempre coinvolgere a 360 gradi la comunità che accoglie, dalle risorse ai soggetti che la compongono. L’accoglienza deve essere un’opportunità per tutti, sia dal punto di vista culturale sia da quello lavorativo. Può diventare, inoltre, un percorso di welfare generativo teso a favorire il sociale e il territorio. Sempre in relazione al link con il paese ospitante, qualsiasi attività deve essere organizzata e gratuita anche per la comunità locale.
In quest’ottica, puntiamo alla valorizzazione del lavoro e delle attività artigianali e formative: organizziamo iniziative e laboratori ai quali può partecipare chiunque, dai migranti ai cittadini.
Le attività riguardano vari ambiti, come l’apicoltura – con la produzione del ‘Miele del Terzo Paradiso’ biologico – la cosmesi naturale dell’Orto del Terzo Paradiso o laboratori di maglieria o tessitura (Pettinengo è il paese dove è nata la maglieria in Italia). Quest’ultimo è una corso di formazione e la nostra sfida è mettere i prodotti realizzati sul mercato. Già due ragazzi che hanno seguito il laboratorio sono stati assunti da importanti realtà biellesi del campo tessile.

Con il vostro progetto, l’accoglienza ha dato opportunità lavorative anche a gente del luogo. Come avete attivato processi di inclusione che coinvolgessero tutti, dai migranti ai residenti?
Questo è il punto centrale. L’inclusione passa innanzitutto dal lavoro: noi diamo opportunità di impiego, tutto a favore della comunità locale. A questo proposito, abbiamo assunto circa 20 persone del paese per rispondere ai servizi richiesti dal (passato) bando della prefettura. In collaborazione con l’amministrazione e la parrocchia, abbiamo assunto molti soggetti in condizioni fragili, che faticavano a trovare un lavoro a causa di alcune criticità personali. Sia i richiedenti asilo sia i soggetti in difficoltà, tramite i nostri laboratori, fanno così riaffiorare gli antichi mestieri della provincia biellese e possono essere reinseriti nella società grazie a un lavoro.

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Ci racconti una ‘giornata tipo’ dei ragazzi? Come si rendono utili alla comunità?
Sono numerose le soluzioni per chi vuole mettersi in gioco. Alcuni volontari, insieme ai nostri collaboratori, vengono a Villa Piazzo al mattino e si occupano di una serie di lavori nel parco e nel paese: c’è chi pulisce il prato, il parco giochi, le strade e i sentieri; ormai sono lavori quasi quotidiani, organizzati insieme all’amministrazione comunale. I nostri ospiti possono prendere parte anche ai corsi italiano e ai laboratori. C’è chi fa più lavori all’aperto, oppure chi è più portato alle attività artigianali. Presso La Caffetteria di Villa Piazzo, gestita direttamente da noi, inoltre, abbiamo tre tirocinanti che seguono un corso di formazione per ristorazione e bar. Sono tutti percorsi di conoscenza reciproca e di welfare generativo.

Facciamo chiarezza attorno ad alcuni réclame politici: quale aiuto vi è arrivato finora dallo Stato? Sono previsti cambiamenti?
Il disegno politico attuale è quello di creare ancora più caos e confusione per poter dimostrare che è meglio chiudere i porti, tutto per porre un veto sul discorso accoglienza. Basti considerare il ‘Decreto sicurezza’, che in realtà è orientato all’opposto di quello che il nome lascia presagire: i nuovi bandi prevedono un solo operatore per 50 migranti. Così non si ha la possibilità né di realizzare qualcosa di positivo né di ottenere uno scambio tra migrante e comunità.

Considera che il nostro rapporto operatori/ospiti accolti era di uno su quattro… Tutto ricadrà sulla società e sui servizi sociali del territorio preposti. L’intento dell’attuale classe politica è chiaro e la variazione di contributo per soggetto dai 35 ai 18 euro è un’altra risposta. Il problema di fondo è che dove i progetti funzionavano bene, i soldi arrivavano alle comunità locali attraverso il lavoro e le ricadute nel territorio! I ragazzi, infatti, avevano e avranno ancora solo 2,50 euro di ‘pocket money’. Quei 35 euro, quindi, erano prevalentemente destinati agli italiani.

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Quali saranno le conseguenze?
Oltre a danneggiare il territorio, si fa un paradossale danno agli italiani: il cambio dai 35 ai 18 euro ci ha portato a licenziare metà del nostro personale, mentre gli ospiti prenderanno ugualmente 70 euro ogni mese. Non solo, nel biellese, di questo passo, perderanno il lavoro almeno 100 persone legate all’accoglienza. Si crea un circolo vizioso: chi rimarrà senza un impiego, richiederà il Reddito di cittadinanza… La soluzione era molto semplice e a portata di tutti, bastava avere l’umiltà e la lungimiranza di verificare tutte quelle realtà che in questi anni hanno lavorato bene e obbligare tutti i gestori a fare in modo che quei soldi servissero veramente all’integrazione e allo sviluppo locale.
La forza politica, invece che mettere in luce le buone pratiche attivate in questi anni, fa propaganda solo sui progetti andati in mano ai criminali, che hanno fatto dell’accoglienza un business.

Quando il lessico fa la differenza: voi vedete questi ragazzi non come profughi, ma come ospiti. C’è un link tra politica e responsabilità individuale?
Sicuramente ognuno, in base ai propri principi e al proprio vissuto, può e dovrebbe fare qualcosa. Ci troviamo in una situazione, però, in cui le scelte politiche sono un ostacolo: c’è molta disinformazione – o meglio informazione scorretta – che si trasforma in rabbia sociale. Bisogna vedere i migranti come nostri simili, persone che stanno vivendo momenti di difficoltà. L’accoglienza non è un regalo, ma un diritto che noi dobbiamo assicurare come Stato Sovrano. L’Italia è tra gli stati firmatari della Convenzione di Ginevra del 1951 e, quindi, ci siamo ‘donati’ questa possibilità di accogliere persone in difficoltà. È un diritto firmato, ma spesso qualcuno se ne dimentica.

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Cosa ne pensi della vicenda di Mimmo Lucano? Quella di Pettinengo può essere considerata una Riace biellese?
Domenico Lucano lo conosco dal 2006. Ero rientrato dall’Africa e l’ho conosciuto proprio a Riace perché volevo conoscere la realtà che aveva creato.
Noi, in qualche modo, non abbiamo fatto altro che copiare il modello Riace adattandolo al nostro contesto. La situazione delicata a cui il paese calabrese sta facendo fronte è chiaramente un attacco politico mirato, sproporzionato rispetto agli eventuali errori burocratici della gestione dello SPRAR di Riace. Sono convito, però, che sentiremo parlare presto – e ancora positivamente – del modello di accoglienza di Riace: la loro iniziativa è un progetto di tutti noi.

Pensa che, a maggio di quest’anno, una classe dell’Università di Tiffin negli USA ci ha contattato per poter fare un campus studio di una settimana qui da noi a Villa Piazzo per studiare, capire e confrontarsi sul modello Pacefuturo di accoglienza.

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Nell’orto di Villa Piazzo c’è un Terzo Paradiso e tu sei anche ambasciatore Rebirth. Come avete fatto vostri i principi del segno-simbolo di Michelangelo Pistoletto?
Innanzitutto, ricordo che qui da noi c’è la prima installazione al mondo del Terzo Paradiso: l’orto del Terzo Paradiso è del 2008! Nel nostro percorso di accoglienza, abbiamo cercato di seguire la filosofia del simbolo trinamico. Come dicevo all’inizio della nostra intervista Pacefuturo ha sempre creduto nel ‘noi’ del Terzo paradiso tra l’io e il tu, nella bellezza dell’incontro, nella diversità come risorsa e nella verità dell’ascolto.

Tutto il percorso teoretico di Pacefuturo, dal 2008, si basa sui principi del segno-simbolo di Pistoletto e l’accoglienza iniziata nel 2014 non è altro che un esempio concreto di messa in pratica. In che termini?
Abbiamo messo in piedi, ad esempio, un laboratorio di trasformazione di erbe spontanee in cosmesi naturale. Trasformiamo le erbe raccolte intorno all’installazione in oleoliti e poi realizziamo creme della cosmesi naturale del Terzo Paradiso. Produciamo anche il ‘miele biologico del Terzo Paradiso’ coi profughi. Questi prodotti naturali sono esempi concreti della messa in pratica dei concetti del segno-simbolo di Michelangelo.

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Quali sono le prospettive e i sogni di questi ragazzi?
I nostri ospiti sognano, come tutti i migranti, di poter tornare un giorno nella loro terra d’origine tra i loro cari, quando le condizioni lo renderanno possibile. Anche se li crediamo giovani, molti – seppur 25enni – hanno già mogli e figli, o comunque una famiglia da aiutare in patria. Vogliono crearsi un futuro per il bene dei loro cari, è da questo che sono mossi. Credo sia una ragione comune: io stesso, finita l’università, sono stato – a cavallo degli anni 2000 – in Africa, dove mi sono occupato di progetti di sviluppo. Dopo anni di permanenza, però, avevo desiderio di tornare nella mia terra, dove ora mi trovo occupato nel progetto a Pettinengo. Tutti i ragazzi, fondamentalmente, cercano un futuro dignitoso. Ma perché il colore della pelle deve essere ancora una discriminante? Dobbiamo ancora percorre insieme tanta strada lungo il segno tracciato da Michelangelo…

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