Rob Hopkins: “Si potrà abbattere il capitalismo ponendogli un'alternativa”
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L’insegnante in permacultura Rob Hopkins è conosciuto per aver fondato nel 2006 a Totnes, Inghilterra, il “Transition network” o Movimento di transizione. Partendo dalla costatazione dell’inevitabile esaurimento delle energie fossili e del loro impatto ambientale negativo, tale movimento sostiene la transizione verso un modo di vita più resiliente, che impari a fare a meno del petrolio, rilocalizzare le attività, sviluppare la auto-organizzazione e che promuova la giustizia sociale. Il movimento da allora si è espanso e le città di una cinquantina di paesi diversi sono entrate nella rete di Transizione.
Di passaggio a Parigi, Rob Hopkins, ha tenuto una conferenza alla Recyclerie il 21 Novembre. Ne abbiamo approfittato per domandargli se la Transizione potrebbe salvare il mondo dalla sua distruzione annunciata.
A 12 anni dalla sua fondazione, quanto si è diffuso il Movimento di Transizione? Si parla di più di 1500 gruppi in Transizione iscritti…
Non è facile quantificarli, in quanto esistono molti gruppi che non sono iscritti al nostro sito. Ad esempio in Giappone abbiamo quattro gruppi iscritti sul nostro sito, mentre ce ne sono 70 iscritti in quello giapponese. Abbiamo gruppi in una cinquantina di Paesi. Tutti i Paesi europei hanno gruppi di transizione. I più attivi sono forse in Belgio, Germania, Giappone, Svezia… Si stanno sviluppando anche delle organizzazioni nazionali, come Transition Italia. Ma grosso modo l’ordine di grandezza è quello.
Cinque o sei anni fa il numero di gruppi cresceva in modo esponenziale. Il film Domani ha fatto accelerare la nascita di gruppi in Belgio, dove si stavano sviluppando diverse iniziative. Oggi nascono meno gruppi ma quelli già esistenti approfondiscono ancora di più la loro transizione, sono sempre più attivi. Vediamo emergere delle reti di città in transizione, che esplorano modi di lavorare insieme.
Avete parlato del film Domani: nel seguito di questo documentario, Dopo Domani, Laure Noualhat e Cyril Dion fanno un bilancio della Transizione e concludono che per far sì che funzioni, devono essere coinvolti tutti gli attori: cittadini, amministratori, imprese…
In un mondo ideale certamente sì: la finanza, la politica e la comunità che si mobilitano insieme permettono di avanzare. Ma anche se non ci sono tutti gli ingredienti si può comunque cucinare un piatto delizioso arrangiandosi con le risorse disponibili. A volte incontro dei sindaci o degli amministratori locali, che mi dicono: “Ci piacerebbe molto avviare una Transizione ma non ci sono gruppi esistenti in città”. In altri posti sono i gruppi in Transizione che si lamentano del mancato sostegno della municipalità. Ma vorrei consigliare alle persone motivate di mobilitarsi comunque. Nella mia città, Totnes, la maggior parte di quello che abbiamo fatto è nato con pochissimo sostegno da parte del consiglio municipale. Crescendo come comunità siamo riusciti a generare l’energia necessaria per realizzare i nostri progetti.
“Le idee e le possibilità fioriscono grazie al lavoro democratico realizzato a monte”
Il miglior luogo al mondo per osservare una Transizione come io me la immagino, penso sia Barcellona. Là il movimento municipale reinventa la città e la democrazia. Hanno creato un’impresa energetica per la città al 100% da fonti rinnovabili che appartiene ai cittadini e sviluppano dei meccanismi che permettono alle persone di investire e di finanziare in comunità dei progetti. Inventano moltissime iniziative di quartiere, le idee e le possibilità fioriscono grazie al lavoro democratico realizzato a monte. Amo anche molto quello che succede a Liège, il loro modo di reinventare il sistema alimentare con il forte sostegno della municipalità.
La Transizione non è una preoccupazione da privilegiati? Bisogna che anche i disagiati abbiamo il tempo e i mezzi per potersi impegnare su questi temi.
Credo che su questo pianeta molte delle cose straordinarie emergano di fatto in zone povere. Nel sud povero degli Stati Uniti, come a Jackson, nel Missisippi, dove esiste l’incredibile progetto “Cooperation Jackson”, o a Cleveland, nell’Ohio. In queste città molto povere, a maggioranza nera e dove il tessuto industriale è scomparso, le persone si sono auto-organizzate in cooperative. Si sono ispirati al movimento di Transizione, con una dimensione di giustizia sociale espressa più che esplicitamente. Quello che può succedere in comunità con poco denaro è stupefacente.
Certamente, i gruppi di Transizione sorgono quando ci sono tempo, spazio, energia e fiducia. Non sempre esistono tutti questi elementi ma alcuni riescono a trasformare gli inconvenienti in vantaggi. In Scozia, per esempio, un movimento di Transizione si è formato all’Università malgrado la grande mobilità della popolazione. Con un terzo delle persone che si rinnovano ogni anno ciò avrebbe potuto essere uno svantaggio ma è stato utilizzato come una forza.
Credete che si possa cambiare di scala in tempo? Malgrado tutte queste iniziative il movimento resta marginale e sembra molto lontano dal rispondere all’appello urgente degli scienziati. L’inquinamento aumento, la biodiversità sparisce, il clima si dirige verso un riscaldamento di 4/5°C da qui alla fine del secolo…
Sì, assolutamente. Bisogna individuare i buoni esempi e imparare da loro per salire di scala. Abbiamo una finestra di azione molto ridotta descritta dal Giec, qualche settimana fa (il rapporto speciale del gruppo di esperti intergovernamentale sull’evoluzione del clima pubblicato l’8 Ottobre stima che dovremmo abbassare le nostre emissioni di CO2 del 45% entro il 2030, ndr).
“Fantastico! Abbiamo l’occasione eccitante di reinventare tutto”
La grande sfida, per me, consiste nel comprendere perché non reagiamo collettivamente, dicendoci: “Fantastico! Abbiamo l’occasione eccitante di reinventare tutto”. L’immaginazione gioca un ruolo essenziale per guidare le nostre reazioni. Abbiamo gli esempi sotto gli occhi, come Jackson, Barcellona, Bristol e Manchester hanno dichiarato l’urgenza climatica e stanno riesaminando l’insieme delle loro politiche municipali nell’ottica di questa urgenza. Se mettiamo insieme tutti i pezzi del puzzle, abbiamo una discreta visione di quale dovrebbe essere la risposta giusta.
Parlate del ruolo dell’immaginazione e predicate instancabilmente un messaggio di ottimismo. Cosa rispondete a chi sottolinea il rischio che un simile messaggio favorisca coloro che negano la portata del pericolo e attenui la consapevolezza dell’urgenza?
Bisogna essere prudenti in questo. Le parole che utilizziamo hanno un impatto importante. Se parliamo di disperazione, di crollo e diciamo che è troppo tardi, paralizziamo completamente la conversazione e diventa molto difficile essere creativi e fantasiosi. C’è molta disperazione oggi, ed è giustificata. È difficile non disperarsi leggendo le informazioni sul clima… Ma se è troppo tardi questo significa che non ci resta che gestire il lento degrado di tutto. E il modo migliore di governarlo è essere creativi. C’è sempre una opportunità per evitare il peggio. Il Giec ci dice che bisogna reinventare tutto: questo necessita di uno sforzo collettivo di immaginazione.
“Il capitalismo distrugge la vita sul pianeta. Dunque, piuttosto che di innovazione preferisco parlare di bisogno di immaginazione”.
Il governo dice in continuazione che è una questione di innovazione. Ma non è così. L’innovazione si fa quando il modello fondamentale su cui questa si basa è funzionante. Potete innovare con nuovi ingredienti la vostra pizza se avete una buona pasta, poiché il modello fondamentale funziona. Ma la base al giorno d’oggi, il capitalismo, non funziona, distrugge la vita sul pianeta. Dunque, piuttosto che di innovazione preferisco parlare di bisogno di immaginazione.
L’immaginario del capitalismo è oggi molto potente, con la promessa fortemente radicata di un consumo esponenziale di beni e di servizi. Come stimolare un nuovo immaginario?
Le persone sono stanche, spaventate e prive di ispirazione. La mia analisi è che viviamo una crisi dell’immaginazione. Il nostro sistema educativo non produce persone che abbiano fantasia. Forse è stato così un tempo ma non è più così adesso. L’economia mondiale è in guerra contro l’immaginazione, crea solitudine, ansia e stress nelle persone, che pensano solo in quanto consumatori. Passiamo sempre meno tempo nella natura. L’impatto degli smartphone e dei social è molto forte.
“Cantate, scrivete delle poesie, disegnate, girate dei film, rendete tutto questo vivo”.
Troppo spesso le persone che si battono per questo mettono l’accento sulla distopia. Ma a cosa serve? Aiutatemi piuttosto ad immaginare come potrebbe essere un mondo diverso. Quando i politici dicono: bisogna ridurre le nostre emissioni fossili dell’80% entro il 2040, come posso immaginare in che modo potrebbe essere? Raccontatemi delle canzoni su questo, scrivetene delle poesie, disegnatemelo, fatene dei film, rendete tutto questo vivo. Ho recentemente incontrato dei ricercatori che lavorano sulle dipendenze. Hanno lavorato con delle persone in sovrappeso che consumano troppo cibo mal sano, aiutarli dicendo a loro di mangiare di meno, non funziona assolutamente.
I ricercatori hanno invece lavorato sulla loro immaginazione stimolando tutti i loro sensi. I pazienti si sono visualizzati che correvano, ascoltavano il canto degli uccelli, sentivano i loro corpi e i muscoli svilupparsi e reagire positivamente, hanno immaginato di rientrare a casa soddisfatti del loro sforzo… Presentare a loro un quadro d’insieme a ciò che potrebbe assomigliare ad una alternativa, ha stimolato maggiormente i pazienti a rinunciare al gelato al cioccolato. I movimenti ecologisti fanno spesso l’errore di non raccontare una storia che sia veramente affascinante ed entusiasmante. A descrizione di ciò che potremmo essere, potrebbe capovolgere la situazione.
Un simile cambio di paradigma può fare a meno della politica? Il vostro messaggio vuole unire e non dividere ma l’immaginario che volete rovesciare oppone una resistenza attiva…
Effettivamente alcuni pensano che la transizione non sia sufficientemente attivista e rumorosa e non si occupi abbastanza della politica. Io rispondo che la transizione è molto politica in quanto è dimostrazione e sperimentazione di cose che marciano. Questo weekend a Londra c’è stata una grande giornata di azione del movimento Extinction Rebellion (sabato 17 novembre migliaia di manifestanti hanno bloccato cinque ponti londinesi come richiamo al governo ad agire d’urgenza per il clima, ndlr). Mia moglie era lì e ha fatto parte delle persone arrestate. Molte delle persone coinvolte nella Transizione, fanno anche parte di questo movimento.
“Abbiamo persone appartenenti a tutto lo spettro politico che sono implicate”
Ma se la transizione diventa vendicativa e contestatrice, perdiamo molte persone. La Transizione non è che un mezzo, concepito per funzionare in una comunità e per funzionare al di sotto dei radar della politica, per attirare più persone possibile. Alcuni vi trovano degli elementi “verdi”, altri una contestazione di sinistra, abbiamo persone di tutto lo spettro politico che sono implicate per far cambiare qualcosa di veramente importante per loro. Dunque quando si critica la Transizione per la sua mancanza di radicalità o di politica, è come rimproverare ad un cucchiaio di tagliare male il pane. Abbiamo attrezzi differenti per ogni cosa…
Per certi ecologisti radicali, chiedere degli sforzi alla popolazione fa il gioco del capitalismo esentando le grandi imprese, maggiori responsabili dell’inquinamento, dalle loro responsabilità. Rivendicate una maggiore efficacia appellandovi sia all’immaginazione che al pragmatismo?
Mi si dice spesso che il pragmatismo non funzioni mai a meno che non affrontiamo dapprima il capitalismo. Credo che sia una scusa per non fare nulla. Come faccio per distruggere o cambiare il capitalismo in casa mia, nella mia città? Se prendete quest’obiettivo complesso e lo dividete in tanti piccoli pezzi, ci sono molte cose che si possono fare localmente. Forse possiamo creare la nostra banca, forse possiamo spingere la nostra economia locale e indipendente, fare ingrandire le fattorie della comunità, fare in modo che il denaro resti quì e non vada verso delle multinazionali che lo depositeranno nei paradisi fiscali.
Credo che si possa iniziare ad abbattere il capitalismo se gli si oppone una meravigliosa alternativa, qualcosa di più di quello che lui offre. Il capitalismo produce solitudine, isolamento sociale, miseria ed ansia. Al suo posto si possono creare dei progetti che uniscono le persone, che creano nuovi impieghi, che permettano di investire il vostro denaro altrove, che diano accesso ad una migliore nutrizione che le persone possano pagarsi. È questa per me la risposta al capitalismo.
I collapsologi difendono le vostre stesse soluzioni ma con un messaggio diverso: il crollo della nostra civilizzazione è molto probabile i nostri sforzi di adattamento devono servire soprattutto alla resilienza del “dopo”. Voi insistete sul messaggio ottimista ma, in fondo, condividete la loro idea?
Dipende da cosa intendiamo per crollo. Se vivete a Porto Rico o in Siria, il crollo ha già avuto luogo… Anche in alcune comunità della banlieue parigina è in corso. In un certo senso parlare di crollo è un privilegio di coloro che possono permettersi di osservarlo. Se andate a Detroit, a Jackson, questi posti si sono sgretolati e le persone si sono chieste che fare. Radunarsi e liberare le immaginazioni ha permesso loro di reagire e di avere degli approcci molto creativi.
Non sono sicuro che la collapsologia possa suscitare la stessa reazione. Se comincio una transizione nella mia città dicendo: “Presto tutto crollerà, venite tutti ad impegnarvi”, attirerò una piccola parte della popolazione. E se nel giro di tre anni il crollo non avviene, ci diranno che avevamo torto. A mio avviso, quello che mobilita le persone è una descrizione sul futuro che ancora è possibile creare. Questo futuro può comportare una parte di crollo, ma bisogna parlarne in modo positivo, eccitante: bisogna dare alle persone delle cose di cui abbiano voglia.
Articolo originale pubblicato su Usbek & Rica
Traduzione a cura di Elena Palazzini ed Enrico Bozzano
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