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Il mondo globalizzato ha aperto le porte alla diversità senza fornirci gli strumenti per maneggiarla. Avviene così che la diversità diventi elemento di conflitto, pretesto per crociate e propagande politiche. In Italia lo viviamo quotidianamente. Cos’è il Worldwork (ed il Processwork, da cui deriva) e – soprattutto – come può aiutarci a superare questa impasse? Per capirlo abbiamo intervistato Melania Bigi, facilitatrice, fondatrice e studentessa della scuola di Arte del Processo, in vista del primo evento di Worldwork che si svolgerà in Italia dal 11 al 13 gennaio 2019 a Bologna, al Centro interculturale Zonarelli, Via Sacco 14 (qui maggiori informazioni).
Cos’è il Processwork? Come è nata questa metodologia e a cosa serve?
Il Processwork, che traduciamo in italiano con Arte del Processo, è una metodologia interdisciplinare che offre strumenti e attitudini per facilitare ogni tipo di esperienza umana, tanto personale quanto collettiva, inclusa la trasformazione di conflitti. L’idea di base è che ogni conflitto o sintomo, psicologico, sociale o fisico può essere elaborato e trasformato, per apprenderne il messaggio celato.
Il Processwork è stato sviluppato nel corso degli ultimi 40 anni da Arnold e Amy Mindell e colleghi: è un approccio che si basa sulla psicologia di C.G. Jung, sulla psicologia umanistica e transpersonale e fa riferimento al nuovo paradigma della scienza (la teoria dei sistemi e la fisica quantistica) e alle filosofie orientali e alle tradizioni indigene.
L’arte del Processo è applicabile in una vasta gamma di situazioni da chi è interessata o interessato ad esplorare e approfondire la relazione con se stessa, con gli altri e con l’intorno più ampio. E’ utile a chi lavora in organizzazioni pubbliche e private, in ambiti di cura e supporto a individui e gruppi, così come nelle aree di facilitazione e sviluppo organizzativo e personale, di ricerca e di espressione artistica.
Come hai incontrato il Processwork e come questo ha influito nella tua vita?
Sembro esagerata se dico che il Processwork mi ha salvata? Ho letto ‘Essere nel Fuoco’ di Arnold Mindell in un momento delicato della mia vita, in cui stavo vivendo un ‘abuso di potere’ che mi ha segnata per sempre. Le parole di Mindell mi hanno come dato uno schiaffo, svegliandomi in maniera brusca al fatto che io ero la prima responsabile di un possibile cambiamento. Se volevo cambiare quella situazione, far sì che non si ripetesse nella mia vita o in altre, stava anche a me rimboccarmi le maniche.
Già da prima avevo scoperto di voler essere una facilitatrice di gruppi, ma da quel momento la ‘chiamata’ è stata ancor più chiara e definita. Ho iniziato a viaggiare per studiare Processwork (ancora in Italia non c’era nessun tipo di corso), a fare sessioni personali, a integrare i principi sviluppati da Mindell e colleghi nella mia professione quanto nella mia quotidianità. Mi sento profondamente grata a questo approccio: non è la panacea di tutti i mali, ovviamente! Non possiamo rischiare altri fanatismi. Dico solo che mi ha calzato a pennello, che mi ha aiutata e continua a supportare i miei sogni e la mia visione del mondo.
In che modo il Processwork facilita il cambiamento sociale e politico?
Da diversi decenni il Processwork viene utilizzato nella trasformazione di conflitti in luoghi molto caldi, in diverse regioni dell’Africa, in Palestina, così come per sanare ferite profonde lasciate aperte dalla storia degli ultimi secoli. L’idea che si possano affrontare grandi tematiche sociali, politiche, razziali, di genere, in maniera ‘profondamente democratica’, lasciando spazio a tutte le voci, le emozioni, le storie, di poter essere espresse, questo mi ha fatto innamorare del Processwork. Poi ho scoperto che per poter far sì che questo accada ‘fuori’, è necessario farlo ‘dentro’: l’attivismo non può prescindere dalla pratica interiore, il Worldwork (lavoro sul mondo) e l’Innerwork (lavoro interiore) sono applicazioni diverse dello stesso concetto.
Dal 2015 esiste in Italia la scuola di Arte del Processo. Come funziona e quali sono i suoi obiettivi?
Storicamente all’Italia piace stare in una posizione super partes, evitare i conflitti, e le dinamiche interne di potere passano dalla delega assoluta all’abuso, senza mezzi termini. Non a caso due parole chiave del Processwork, rango e potere, hanno un’accezione principalmente negativa. Meglio evitare. Evitare di rischiare, di compromettersi, di esprimersi. Mi rendo conto di essere un po’ dura verso il mio paese natale, che mi genera tanti sentimenti contrastanti: ma viaggio in lungo e in largo facilitando gruppi e organizzazioni di ogni sorta. Parlando in gergo Processwork, il potere è secondario, nella cultura italiana, ovvero la maggior parte delle persone non riconoscono i propri privilegi, il proprio valore, quindi non si assumono la responsabilità del cambiamento, delegano a qualcuno di migliore. Quindi ci troviamo con il potere nelle mani di pochi, che raramente fanno l’interesse del bene comune. Finché questo accade, sarà difficile che lo scenario socio-politico possa variare.
La scuola è nata 4 anni fa, in seguito al Deep Democracy Tour, una serie di eventi di in 4 città italiane: uno degli obiettivi della scuola è di diffondere una cultura, prima di tutto. Se abbiamo persone in grado di facilitare i conflitti, non di evitarli, ma affrontarli per prenderne l’essenza utile, trasformarli come un’alchimista, estraendone ciò che di positivo può portare; se utilizziamo strumenti, interiori ed esteriori, che ci mettano in connessione con le emozioni, con il senso profondo che sta dietro le nostre azioni, ecco, lì forse il cambiamento è possibile. La Scuola è un percorso innanzi tutto personale: ogni anno organizziamo sei seminari, con sedi sparse in tutta Italia, per renderla accessibile alle diverse regioni. Oltre ai seminari lo studio personale, i gruppi di pari, le letture, le sessioni personali… insomma, niente da invidiare ad un vero e proprio percorso universitario! Un percorso che chiede molto, e da’ altrettanto.
Quali sono i motivi che vi hanno spinto a organizzare l’evento che si svolgerà a Bologna?
Ogni 2-3 anni si svolge il grande evento di Worldwork, con centinaia di partecipanti da tutto il mondo: dopo aver partecipato a quello di Atene, nel 2017, ci siamo dette che non potevamo aspettare il prossimo, in Canada, nel 2020. In Italia abbiamo troppo bisogno di forme ‘nuove’ di incontro, discussione, spazi per affrontare le tematiche ‘calde’ che influiscono sulle nostre vite. Allora perché non organizzare un mini-worldwork, puntando ad avere almeno un centinaio di persone, in un luogo il più possibile accessibile e centrale?
Vogliamo creare spazi di dialogo per confrontarci su questioni come immigrazione, economia, educazione, politica, cambiamento climatico, diritti umani e beni comuni, violenza di genere. Come abbiamo scritto sull’invito: ognuno di noi ha un pezzetto di responsabilità nel cambiamento, e il Worldwork è uno spazio sicuro dove poterci incontrare nella diversità.
In Italia il tema dell’immigrazione è costantemente all’ordine del giorno e crea spesso conflitti e schieramenti opposti. Come consigli di rapportarsi a fenomeni come il razzismo e la xenofobia?
Il tema è gigante, e non credo ci sia una risposta ad una domanda tanto grande. Il rischio più grande che io vedo è che diventi una scusa, una scusa per dividerci ulteriormente, per polarizzarci in CONTRO o PRO. Il nostro invito è proprio questo: incontriamoci, parliamone, tiriamo fuori le nostre preoccupazioni, le nostre emozioni, le soluzioni le costruiamo insieme. Non chiudiamoci dietro uno schermo, non deleghiamo ai politici di turno la responsabilità di ogni evento, non scanniamoci sui social, parliamo… Siamo tutti esseri umani: chi non ha paura di essere solo? Chi non ha mai fatto esperienza di sentirsi escluso? Chi non è preoccupato per il futuro dei propri cari? Sufi Rumi scriveva: ‘aldilà dell’idea di giusto e sbagliato c’è un campo. Ci incontreremo là’. Ecco, vogliamo trovare quel campo.
Come si può partecipare?
Il Worldwork sarà strutturato come una formazione di 3 giorni, da venerdì 11 a domenica 13 febbraio: chi è interessato ad approfondire la metodologia può partecipare all’intero seminario o solo all’evento, aperto e gratuito, il sabato pomeriggio. Vogliamo dare a tutte e tutti l’opportunità di vivere l’esperienza di un dialogo facilitato su un tema ‘caldo’ come quello dell’immigrazione: per questo, all’interno del seminario, abbiamo deciso di organizzare uno spazio nel quale tutte le voci possano essere ascoltate.
L’evento si chiamerà : “OLTRE I CONFINI: COSA SIAMO DISPOSTI A METTERE IN GIOCO PER ACCOGLIERE E SENTIRCI ACCOLTI?”. Sabato 12 gennaio dalle 17.00 alle 19.00 chiunque abbia il desiderio di confrontarsi, in maniera pacifica in un ambiente protetto, sul tema, è benvenuto!
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