Seguici su:
Da anni non indosso più un orologio.
Ho imparato a rendermi conto del tempo che passa guardandomi intorno e non chinandomi sul mio polso. Ascoltare i rintocchi delle campane, osservare la posizione del sole in cielo, fare attenzione ai segnali del mio corpo che mi aiutano a percepire lo scorrere del tempo – la fame, il sonno, la stanchezza, la freschezza.
Ma anche ciò che succede intorno a me, nel mondo in cui vivo: il bar sotto casa è già aperto? Il postino è già passato? Il vicino è già rientrato a casa dopo il lavoro?
Non avere più l’orologio aiuta a vivere senza ansia la giornata. Libera la mente dal condizionamento del tempo, dell’impegno, degli orari da rispettare. Quando gioco con i miei figli mi concentro su di loro, su quello che stiamo costruendo, sul rapporto che giorno dopo giorno si fa più solido e complesso, possibilmente lontano dalle logiche di mercificazione del tempo imposte dalla nostra società.
Vorrei insegnare loro che lentezza non vuol dire svogliatezza, pigrizia o negligenza. Lo faccio attraverso i piccoli gesti, a cominciare dal concedere a ciascuno il tempo di cui ha bisogno: il tempo per scendere le scale con le piccole gambette di un bimbo, il tempo di passeggiare in giardino perdendosi ogni minuto dietro fiori, insetti e sassolini, il tempo di indossare un paio di scarpe scambiando la destra con la sinistra, sbagliando ad allacciare la stringa o giocando con il velcro.
Mi prendo il tempo di perdere tempo. Forse durante un pasto rimanere per qualche minuto bloccati con la forchetta a mezz’aria e la bocca semiaperta non è maleducazione né svogliatezza né stordimento. Forse il mio cervello in quel momento aveva qualcosa di più importante da fare che dirigere il cibo verso la mia bocca. O forse voleva solo fare una pausa.
Mi ribello alla logica del cartellino. Ritengo che imporre a una persona di lavorare 8, ma anche 10 o 12 ore al giorno voglia dire schiavizzarla. Non incatenandola, ma utilizzando meccanismi più subdoli e sottili come il debito, il consumo, la continua necessità di acquistare cose che non ci servono e che non potremmo neanche permetterci. E gioisco quando leggo di esperimenti positivi di imprenditori illuminati che lasciano i loro dipendenti liberi di autogestire i loro orari di lavoro.
M’immagino che l’orologio sia una manetta che stringe il nostro polso e lo incatena a qualcosa: un appuntamento, un treno su cui salire, una medicina da prendere o anche solo l’assurda necessità di “essere produttivi”, di fare qualcosa, di non sprecare il tempo prezioso oziando e rallentando il ritmo di vita. E da quando ho tolto l’orologio mi sono sentito come un carcerato finalmente liberato dalla sua detenzione, che può alzarsi, sgranchirsi le braccia, alzare la testa e guardare di nuovo il sole intero e non più a scacchi.
Forse è solo un’illusione: la vita va avanti e magari l’unico effetto che ho guadagnato è diventare un ritardatario. Però dentro di me ho avuto l’impressione di essere un po’ più libero, di avere un lucchetto in meno alla gabbia che ci impedisce di essere felici.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento