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Ho conosciuto Emanuela Moroni anni fa a un corso di sceneggiatura a Roma. Me la ricordo giovane mamma e assistente di volo; era piuttosto silenziosa e sempre indaffarata. La ritrovo dieci anni dopo ancora più giovane (beata lei) ma molto più sorridente e rilassata. Volete sapere qual è la sua ricetta di giovinezza? Non vi resta che andare avanti nella lettura. Per il momento accontentatevi di sapere che Emanuela è una delle due autrici, l’altra è Manuela Cannone, del documentario Amaranto.
La incontro a Viterbo, la sua città, a un rave di danze folk in piazza. Fra un valzer e una mazurka, mi dice anzitutto delle tante persone che le hanno chiesto del film nei tre anni e mezzo impiegati a realizzarlo. Tre anni e mezzo passati fra difficoltà di ogni genere, come spesso capita per le piccole produzioni indipendenti, e slanci di generosità da parte di coloro che lo hanno supportato sostenendo i due crowdfunding lanciati dalle autrici. “La curiosità che si era creata attorno al progetto è stata uno degli stimoli più forti a finirlo”, chiosa prima che io cominci con le mie domande.
A proposito di curiosità. Partiamo dalla più ovvia: perché Amaranto?
Qualche anno fa, nonostante i tanti erbicidi utilizzati, l’amaranto – pianta spontanea sacra per le civiltà precolombiane – ha invaso i campi di una potente multinazionale coltivati a soia OGM. Ci è sembrato un gentile invito alla resistenza, proprio come le scelte di vita che raccontiamo nel documentario.
Com’è nata l’idea del film?
Io e Manuela Cannone ci siamo conosciute a una manifestazione contro la chiusura di un cinema d’essai a Viterbo. Ragionando su quanto fosse importante per una piccola città mantenere aperti i luoghi di promozione culturale, abbiamo scoperto di avere diverse passioni in comune – prima fra tutte quella per la fotografa Tina Modotti – e di essere in un momento della vita in cui sperimentavamo una ricerca personale che andava nella stessa direzione. Durante questa ricerca ci era capitato di incontrare persone e storie straordinarie, e così ci siamo chieste perché non raccontare ad altri queste storie così significative per noi? Un po’ come fate voi dell’Italia che Cambia attraverso il vostro giornale online.
Come siete passate dalla teoria alla pratica?
Dopo diversi tentativi presso le produzioni cinematografiche, che non hanno ottenuto risposta, abbiamo pensato che il modo più giusto di realizzare questo progetto era coinvolgere le persone che lo avrebbero potuto amare. E così abbiamo organizzato due crowdfunding. Il primo per finanziare le riprese e il secondo per la post produzione. Durante il percorso abbiamo poi incontrato la Raya Visual Art di Roma, una piccola casa di produzione indipendente che ci ha messo una parte del lavoro, e qualche sponsor – primo fra tutti Banca Etica – coerente con i valori che ci eravamo ripromesse di raccontare.
Qual è il tema centrale del film?
In un’epoca segnata da gravi crisi ambientali e sociali, abbiamo scelto di rivolgere lo sguardo verso chi sta cercando di costruire e immaginare un mondo diverso; un mondo in cui a ogni essere umano è riconosciuto il suo valore, dove è dato spazio alla comunità ed è ristabilita la profonda connessione che ci lega al pianeta Terra e agli altri sui abitanti. Amaranto parte da qui, dalla possibilità di andare oltre ciò che diamo per scontato, per raccontare la possibilità di un cambio vita personale – praticabile da ognuno di noi – come primo passo verso un cambiamento collettivo.
Il film si apre con una premessa: brevi interviste a Serge Latouche, Helena Norbert-Hodge, Franco Arminio e altri intellettuali e referenti dei movimenti mondiali in difesa del pianeta.
Sì. Abbiamo chiesto a tutti loro di rispondere a due domande: qual è l’urgenza più grande in questo momento e qual è la sua soluzione. Da osservatori attenti e promotori di un immaginario collettivo che ruota intorno al concetto di bene comune, nelle loro parole emergono tutte le criticità. Ma anche una speranza: quanto i nostri gesti singoli possono incidere positivamente sulle sorti della nostra specie e del pianeta.
Dopo la premessa, iniziano le storie vere e proprie, divise in cinque episodi che rappresentano cinque tappe significative della vita di un essere umano. Un filo conduttore piuttosto impegnativo.
Una bella sfida, è vero. Ma il valore dei nostri protagonisti ci ha permesso di affrontarla con una certa serenità.
Come li avete scelti?
Abbiamo fatto diverse ricerche e alla fine abbiamo individuato una decina di “portatori sani di immaginario” con un tratto fondamentale in comune: la loro laicità, ossia la non appartenenza a nessuna ideologia preconfezionata. Storie personali come le loro, proprio per il fatto di essere esclusivamente frutto di un lavoro sul campo, sono uno stimolo per riflettere sulla possibilità di un’alternativa alla vita convenzionale, più rispettosa del pianeta e dei reali bisogni dell’essere umano. Alla fine, però, per motivi di spazio abbiamo dovuto fare una selezione fra tutti gli intervistati e – sia pure con grande rammarico – abbiamo dovuto sceglierne solo cinque.
Il primo episodio ha per titolo “Venire al mondo”. Non potevate che iniziare da lì.
E per farlo abbiamo intervistato l’ostetrica Verena Schmid, da 25 anni promotrice attiva del parto naturale. Scrittrice e direttrice della rivista delle ostetriche, ha vinto il premio internazionale Astrid Limburg nel 2000 per la promozione dell´autonomia dell’ostetrica e della nascita fisiologica. Nonostante i suoi studi e le sue convinzioni, Verena ci ha affascinate per la sua attenzione alla consapevolezza delle donne, per lei perfino più importante rispetto alla scelta finale sul metodo del parto.
La seconda tappa, “Dare forma al mondo”, riguarda la scuola.
Protagonista di questo episodio è Franco Lorenzoni, maestro di scuola primaria e scrittore che ha fondato la Casa-laboratorio Cenci, in Umbria, un centro di sperimentazione educativa sui temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. Franco è stato scelto perché, essendo maestro elementare statale, il suo progetto di educazione alternativa è accessibile a tutti. È durante i suoi laboratori per bambini che abbiamo avuto la percezione di come sia in realtà agevole e ricco di possibilità – se ci liberiamo dai pregiudizi, cosa che i bambini sono naturalmente portati a fare – mettere in discussione l’immaginario attraverso il quale siamo abituati a leggere la realtà.
Veniamo al “Mettere radici”.
Etain Addey è una contadina e scrittrice inglese, fra i principali esponenti del movimento bioregionale italiano. Vive nel suo podere a Pratale, vicino Gubbio (PG), dove ha raggiunto una quasi totale autosufficienza. La sua casa è stata costruita per essere un luogo dove ospitare chiunque voglia riscoprire il valore di farsi il cibo da soli e condividere l’esperienza di una vita semplice. Nonostante non sia originaria del luogo in cui vive, Etain è un simbolo di radicamento, con un’idea di comunità mobile e dinamica e una storia personale che l’ha vista realizzare un improvviso cambio vita.
La quarta tappa riguarda l’abitare. O, nella vostra declinazione, il “Coabitare”.
Esatto. Volevamo parlare di un modello di abitare alternativo a quello tradizionale, costruito sulla solidarietà e sulla condivisione. Fra le tante possibilità abbiamo scelto il co-housing San Giorgio a Ferrara perché aveva una storia piuttosto lunga e perché i suoi residenti sono tutte persone del posto. La protagonista di questo episodio è Alida Nepa, presidente dell’associazione a cui fa capo il co-housing, che si fonda sui principi della bioedilizia e del basso consumo energetico. A differenza di Etain, il cambio vita di Alida è stato lento e ponderato. Il gruppo era difatti partito come semplice GAS-Gruppo di Acquisto Solidale.
La quinta e l’ultima tappa di un essere umano è quella più difficile da accettare nella cultura dominante. Voi però avete trovato un modo molto originale di trattarla: l’avete chiamata “Rinascere”.
Anche la morte può essere vista in un modo diverso. Non a caso abbiamo scelto, come protagonista di questo episodio, la fondatrice dell’Accademia italiana di Permacultura Saviana Parodi. Biologa, formatrice e progettista in permacultura, Saviana ha una visione circolare del ciclo di trasformazione e rinascita dell’esistente. Dal 1995 studia, pratica, trasmette e progetta in permacultura nel mondo lavorando come volontaria in auto-costruzione, agricoltura naturale e salvatrice di semi, vivendo in completa armonia con la natura.
Tutte queste persone che hanno cambiato vita… e non abbiamo parlato del tuo personale cambiamento.
La prima scintilla si accese con il G8 di Genova, nel 2001. L’attenzione della stampa in quei giorni si concentrava sugli scontri invece che sui motivi della protesta. L’indignazione che provai mi spinse a interessarmi a chi, con i suoi gesti quotidiani, cercava di cambiare le cose. Qualche anno dopo ho letto un libro di Etain Addey, “Una gioia silenziosa”, e ne sono rimasta folgorata. Il passaggio successivo è stato la lettura di un saggio di Serge Latouche, poi un corso di agricultura sinergica, fino alla mia scelta vegeteriana e al ritorno alla terra. È stato un cambiamento lento ma costante. Con qualche svolta improvvisa: su tutte, lasciare un lavoro sicuro.
Non mi hai ancora detto la ricetta del tuo elisir di giovinezza.
Mi hai conosciuto quando facevo ancora l’assistente di volo. Poi ho ricominciato ad ascoltare la bambina curiosa che vive dentro di me e sono passata a una, più umile ma molto più utile, assistenza alla Terra.
Emanuela si allontana con i suoi amici. Prima di rituffarmi nelle danze, ho il tempo di pensare che durante il corso di sceneggiatura in cui ci siamo conosciuti si parlava di cinema di finzione; ossia del cinema tradizionale, con gli attori e i personaggi inventati. Dopo 10 anni e tanta strada percorsa in lungo e in largo, i sentieri della vita ci hanno portato a rincontrarci – è proprio il caso di dirlo – sullo stesso terreno. Abbiamo entrambi capito che, a guardarla bene in profondità, la realtà è più avanti della finzione. E che, ognuno a suo modo, abbiamo scelto di dedicare una parte della nostra vita a raccontarla.
Per organizzare una proiezione di Amaranto nella propria città si può scrivere a amaranto.documentario@gmail.com.
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