PAC: quale futuro per la Politica Agricola Comune?
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La PAC (Politica Agricola Comune) nacque nel 1962 e da allora è stata uno degli accordi sui cui fondare l’intera Comunità Europea, infatti attualmente circa il 40% dei fondi europei è destinato al settore agricolo. Si rivolge a 12 milioni di agricoltori e interessa circa il 77% del territorio dell’Unione. Riguarda anche 46 milioni di posti di lavoro e almeno 500 milioni di cittadini-consumatori. Queste cifre aiutano a comprendere perché sia probabilmente l’accordo più importante della Comunità. Agisce tramite due “pilastri”: i pagamenti diretti e il sostegno alle aree rurali.
Riguardo la nuova PAC molte informazioni si possono già trovare sul sito europa.eu. Fa discutere una sensibile diminuzione del budget destinato all’agricoltura per adeguarsi ad un’Europa a 27 (Brexit), ma si parla anche di forti tutele per l’ambiente, di “redistribuzione del potere” nella catena alimentare, e del solito guadagno adeguato per gli operatori del settore. Individuare gli obiettivi della politica agricola è il primo passo, ora bisogna capire come perseguirli.
Le esigenze dei popoli nel corso degli anni sono cambiate, come quelle dei consumatori, degli agricoltori, dei distributori ecc. I principi di tale politica sono rimasti invece sempre gli stessi. Questo non vuol dire che le esigenze non siano state in parte ascoltate, ma si è rimasti ostinatamente ancorati ad una ormai radicata visione dell’agricoltura. Piuttosto che mettere in discussione le basi del vecchio sistema si è preferito integrare nuove tematiche ponendo vincoli, norme, inventando i sistemi delle certificazioni, delle quote e altro. Tutte queste soluzioni possono andare teoricamente bene ma creano una grande confusione soprattutto tra gli operatori del settore.
Ecco dunque quali sono questi principi fondativi:
-sostenere gli agricoltori e migliorare la produttività agricola, in modo che i consumatori abbiano una fornitura stabile di alimenti a prezzi accessibili
-garantire che gli agricoltori dell’UE possano vivere in modo ragionevole
-aiutare a contrastare i cambiamenti climatici e la gestione sostenibile delle risorse naturali
-mantenere aree rurali e paesaggi in tutta l’UE
-mantenere viva l’economia rurale promuovendo posti di lavoro nell’agricoltura, nelle industrie agroalimentari e nei settori associati.
Un miglioramento fatto negli ultimi anni è stato quello di inserire nei principi fondativi la tutela dell’ambiente.
Sembra che l’UE fatichi ad uscire però dalla visione dell’agricoltura come mera attività produttiva. Nel ‘62 la PAC era nata così, come accordo per aumentare la produttività e arricchire le persone coinvolte e probabilmente per quel periodo storico andava bene così. Ma oggi, che i bisogni sono cambiati sembra che la Comunità Europea non riesca a svincolarsi da quella visione. Forse ci sono legami difficili da sciogliere fra politica, finanza e agribusiness, ma l’esigenza di un ritorno a pratiche agricole naturali e ad una diversa cura del territorio è sempre più forte.
Agricoltura infatti non è solo produzione. È un’attività sorta spontaneamente dall’interconnessione fra uomo e natura. La ricerca di cibo, la coltivazione delle piante, la cura del territorio, la vita sociale di una comunità umana si sono fuse assieme nell’arte dell’agricoltura.
La stessa idea che l’uomo produca il cibo è un po’ forviante. Il cibo è prodotto dalla natura, sempre. Quello che noi facciamo è arare, seminare e raccogliere. Questa è la visione che non considera l’uomo al di sopra della natura, ma lo considera come facente parte della vita sulla Terra. Questa era la stessa visione dei popoli indigeni di America e Africa prima dell’arrivo dell’agricoltura occidentale. Negli ultimi decenni l’agricoltura è sempre più solo attività produttiva, risponde alle regole di mercato e ciò che più conta è il risultato produttivo.
La stessa produzione è importante nella misura in cui è usata per sfamare le persone che ne hanno bisogno. Il resto è quel surplus che si può mettere in discussione. Ecco cosa è stata e cosa può essere l’attività agricola oltre alla produzione:
– Cura del territorio e dell’ambiente: conservare il suolo, l’acqua e la biodiversità indispensabili per la vita.
– Attività all’aria aperta e lavoro: Importantissimi per la salute psico-fisica dell’essere umano.
– Cultura e conoscenza: una società basata sull’agricoltura è permeata di una saggezza che deriva dalla vita a contatto con la natura e dal lavoro.
Con l’agricoltura industriale abbiamo venduto questi valori in cambio di beni materiali. Pensiamo che l’agricoltura sia fatta altrove, sia fatta da altri e abbiamo delegato tutto. In realtà facciamo scelte attraverso il nostro modo di comprare e consumare il cibo e decidendo come vivere all’interno del territorio e della comunità. Noi siamo natura e se non vogliamo occuparcene qualcun’altro se ne occuperà per noi. Qualcuno che non necessariamente pensa alla nostra terra, al nostro lavoro, alla nostra educazione, salute e crescita come esseri umani.
Ecco che la Comunità Europea dovrebbe tenere in mente queste cose aggiornando le politiche agricole. Adesso poche persone bastano per coltivare enormi superfici, utilizzando macchinari pesanti e prodotti chimici, alienando molte persone dalla natura e dal loro cibo. Per un breve periodo questo è andato bene, ma oggi? Le esigenze sono ancora le stesse?
Non si tratta più di ridistribuire le ricchezze intese come soldi fra i cittadini ma di ridistribuire l’agricoltura stessa, la terra e la capacità di produzione del cibo e dei beni. C’è un breve estratto da “The unsettling of America: culture and agricolture” di Wendell Berry (1977) che aiuta a capire la situazione:
“Immagino un cavatore come modello per lo sfruttamento e, come modello per il nutrimento, adotto l’idea vecchia maniera o utopica dell’agricoltore. Lo sfruttatore è uno specialista, un esperto; chi nutre non lo è. Lo standard dello sfruttatore è l’efficienza; lo standard di chi nutre è la cura. L’obiettivo di chi sfrutta è il denaro, il profitto; l’obiettivo di chi nutre è la salute – della propria terra, di se stesso, della propria famiglia, della comunità, del proprio paese. Mentre chi sfrutta adopera un pezzo di terra solo per ciò che gli serve ottenere e per il tempo indispensabile ad ottenerlo, chi nutre pone una domanda molto più complessa e difficile; qual è la capacità portante di questa terra? (…) Chi sfrutta aspira a guadagnare il più possibile col minor lavoro possibile; chi nutre si aspetta, naturalmente, di ottenere di che vivere dignitosamente con il proprio lavoro, ma l’auspicio che lo caratterizza è quello di lavorare al meglio possibile”.
Forse ci siamo allontanati dalla visione di chi nutre. Riscoprirla sarà la sfida per il futuro.
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