7 Lug 2018

Pastorizia urbana: “Il pascolo è una risorsa per la città”

Scritto da: Elisa Elia

Dal mantenimento delle aree verdi alla valorizzazione delle produzioni delle comunità locali. Questi alcuni dei vantaggi che il pascolo nelle aree urbane e periurbane può apportare alle città, come dimostrano le esperienze già diffuse in alcuni Paesi europei. Ne abbiamo parlato con l'ideatrice del progetto “Pastorizia urbana”, tra i finalisti dell'ultima edizione del concorso che premia le migliori pratiche e soluzioni per Roma.

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“Pastorizia Urbana”, sembrerebbe un ossimoro, ma non lo è. Il progetto nasce da un’idea di Simona Messina, architetto, che nel suo lavoro all’interno di un’area protetta del Parco dell’Appia antica di Roma ha potuto conoscere il mondo del pascolo itinerante, quello fatto dai pastori delle piccole aziende che pascolano i loro greggi nelle campagne romane ai confini (dentro e fuori) del Grande Raccordo Anulare.

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“Pastorizia urbana è un neologismo che io ho tratto da una corrente di pensiero di area scandinava che dà un’interpretazione del paesaggio legata alle caratteristiche di uso del suolo storico e in particolare della pastorizia tradizionale”, spiega Simona, parlando di come la genesi del suo progetto sia legata ad una ricerca di dottorato. “Quello che io vedo è che sul territorio dell’Agro Romano, nelle aree periurbane, questi frammenti verdi costellati da greggi sono un’immagine di ciò che rimane di un paesaggio culturale, storico e paesaggistico, ma possono essere una risorsa anche economica, se valorizzati”.

 

E come? Come possono dei greggi essere una risorsa economica per lo Stato e non per l’allevatore soltanto? “Si potrebbe cominciare con un progetto di manutenzione delle aree verdi pubbliche utilizzando i greggi della campagna romana”, spiega ancora Simona, “Ci sono infatti numerose aree verdi spesso abbandonate, in cui l’erba cresce alta e crea disagio ai cittadini; in alcuni quartieri i comitati locali si autotassano in modo da poter provvedere autonomamente al taglio dell’erba. E allora, perché non dare questa possibilità a chi già lo fa di natura?”. Si tratterebbe, insomma, di un punto di partenza per imparare a vedere questi allevamenti e allevatori anche come una risorsa economica pubblica: gli animali da pascolo compiono da soli e naturalmente ciò che nella città richiede l’impiego di un servizio. In alcuni paesi europei, come la Francia e la Germania, queste buone pratiche sono già in uso e debitamente istituzionalizzate. In Italia la situazione di base esiste come realtà pratica, ma non ha un riscontro con le amministrazioni pubbliche.

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“Questo servizio, oltre al risparmio del carburante, avrebbe altre ricadute positive: dare visibilità a questo mondo; offrire delle occasioni di integrazione del reddito per chi, come molti di questi pastori, si trova maggiormente ai margini della società; creare dei legami con le comunità locali”. Lontana da una concezione romantica e idealizzata del mondo della pastorizia, Simona parla chiaramente della pastorizia urbana come di una possibilità di scambio di beni, che partendo dal mantenimento delle aree verdi potrebbe poi allargarsi ad altre iniziative e valorizzare le produzioni delle comunità locali.

 

 

Queste aziende familiari, infatti, rappresentano la fetta più grossa del mercato dell’allevamento nella provincia di Roma, a metà fra gli allevatori per l’autoconsumo e le grandi aziende, e trattano fino a massimo 1000 capi di bestiame. Ma, schiacciate dalla concorrenza del mercato dell’allevamento intensivo e non tutelate da alcuna normativa a livello nazionale, rischiano di scomparire. E con loro tutta una serie di saperi tradizionali, conoscenze e identità che rappresentano un bene anche dal punto di vista culturale.

 

 

“L’idea, insomma, è quella di rovesciare la prospettiva e guardare a questa realtà come ad un bene che deve essere valorizzato e incentivato, sempre tenendo conto che non deve mettersi in competizione con il mondo della grande distribuzione – chiarisce Simona – perché produce meno beni materiali e meno profitto, ma molti altri tipi di risorse”. I riscontri positivi sono quasi circolari e si rincorrono: dietro, infatti, c’è anche una tutela del ciclo naturale delle piante e della biodiversità, che influenza anche la qualità dei prodotti caseari; c’è l’interesse delle persone, che vedendo una pratica del genere per molti sconosciuta se ne interessano e contribuiscono a farla (ri)vivere; c’è la possibilità di dare lavoro e magari in futuro recuperare altri saperi tradizionali che sono andati persi a causa del sistema di produzione moderno.

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Sebbene la sponda istituzionale ancora non vi sia, l’ideatrice del progetto ha le idee ben chiare: ci vuole un dialogo con le istituzioni, partendo da quelle municipali, e con le realtà cittadine, ci vogliono protocolli e convenzioni, normative che diano incentivi e che assegnino a queste realtà categorie diverse da quelle del grande allevamento. “In futuro – aggiunge l’architetto – si potrebbe pensare anche a delle scuole di formazione per pastori, in modo da dare una qualifica alta e creare una consapevolezza del ruolo”.

 

 

“È gente che ha memoria personale della transumanza, c’è un patrimonio anche di saperi tradizionali che comunque finirà. Per me l’unico modo di conservare quel paesaggio deve passare attraverso la riattivazione degli aspetti funzionali che l’hanno prodotto”.

 

 

Il progetto Pastorizia Urbana è arrivato tra i finalisti dell’ultima edizione del concorso Roma BPA 2018, nella sezione “Roma coltiva bene”. Ideato da Paolo Masini il “Roma Best Practices Award – Mamma Roma e i suoi figli migliori”  è un premio nato per valorizzare e mettere in rete le migliori idee, progetti e soluzioni per Roma. Italia che Cambia ha fatto parte quest’anno della giuria e ha avuto così il piacere di premiare e contribuire a diffondere, come vuole la sua mission, le pratiche virtuose e innovative di quell’Italia spesso lontana dai riflettori dei mass media.

 

 

 

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