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Da circa sette anni all’istituto Faraday di Ostia accade qualcosa di insolito durante l’ora di religione. Si tratta di un istituto tecnico al quale accedono ragazzi di periferia provenienti dalle borgate che a partire dal dopoguerra sono sorte più o meno abusivamente nel territorio compreso fra il raccordo anulare e il litorale, alle quali si aggiungono le città di Fiumicino e di Ostia. Si tratta di ragazzi per i quali la scuola, lo studio, non sono un’esperienza scontata, ragazzi che vanno conquistati, ragazzi segnati in maniera importante, anche da esperienze personali e familiari difficili.
Alessandro Romelli è l’insegnante di religione di questo istituto, ha 43 anni ed è nato in una piccola valle di montagna della provincia bergamasca, la Valle di Scalve. Si è laureato in teologia presso l’Università Gregoriana dai Gesuiti e ha lavorato per diversi anni nella Fondazione Di Liegro, a stretto contatto con l’eredità spirituale e culturale di don Luigi. È qui che ha iniziato ad occuparsi di progetti di educazione dei giovani. Nel 2011 ha deciso di dedicarsi completamente all’insegnamento e dopo una breve esperienza al liceo Virgilio di Roma è stato trasferito ad Ostia, al Faraday. Un’esperienza transitoria, che ancora dura….
Una delle prime cose che ho cercato di farmi spiegare da Alessandro è stato il significato da attribuire all’ora di religione, oggi, e in una scuola di periferia come il Faraday. Secondo Alessandro, perché l’insegnamento sia proficuo, è necessario conoscere le persone che si hanno davanti ed il contesto al quale appartengono. Bisogna essere disponibili a guardarle negli occhi, ascoltarle, capire il loro mondo, il loro linguaggio, i loro bisogni: “Ed è da qui che bisogna partire domandandosi cosa tu puoi fare per loro e come”. Significa attivare una circolarità virtuosa, dove mittente e destinatario della comunicazione si interrogano e si nutrono reciprocamente. Diversamente la lezione diventa un dialogo fra sordi.
Secondo Alessandro questa regola è vera per tutte le materie, ma la sua riflessione ha riguardato in modo particolare l’ora di religione. Ora di religione che nulla deve avere a che fare con il catechismo, né con l’orientare le coscienze verso una scelta di fede. Secondo Alessandro negli Istituti Tecnici il sapere umanistico è residuale e ciò rappresenta un grande limite: il sapere umanistico rappresenta una palestra formidabile attraverso la quale un adolescente – sulla rampa di lancio della vita – impara a dare un nome a quel che si porta dentro e a quel che osserva fuori di sé. In altre parole, il sapere tecnico ti insegna come si monta la bicicletta, ma poi rimane da decidere quale sia la direzione da seguire una volta che ci sei salito sopra. Ecco perché è necessario spingere in avanti il sapere tecnico, ma al tempo stesso coltivare una visione dell’uomo e del futuro, in cui mettere a fuoco la direzione che stiamo seguendo e decidere quella che vogliamo seguire.
Questi alcuni dei ragionamenti che guidano l’insegnamento di Alessandro e in base ai quali ha sempre detto ai suoi allievi che non gli interessa condizionare i loro pensieri o le loro coscienze, ma certamente stimolarli a pensare, a prestare attenzione alla propria coscienza e ad averne cura, per poter scegliere di diventare se stessi. Che è più di trovare un lavoro, per quanto indispensabile! Quali i punti di riferimento, allora, per dare un significato diverso all’insegnamento della religione? La centralità della relazione con gli studenti: se sboccia la relazione e i ragazzi avvertono che vi è un “interesse disinteressato” verso di loro, allora sono i primi a voler dare il meglio di sé. Anche perché spesso non cercano erogatori d’informazioni, ma qualcuno che possa costituire un riferimento.
Aristotele diceva che la filosofia nasce dalla meraviglia. Prima ancora di insegnare cose, bisogna rendere possibile lo stupore. Uscire dall’indifferenza o dallo stato di torpore dove oggi molti ragazzi sono trattenuti. E porsi delle domande. La maieutica socratica. L’insegnante è solo uno strumento, il compito è far emergere. Il che comporta anche sapersi fare da parte. Al centro della scena non ci sono gli insegnanti, a loro compete soltanto creare le condizioni perché qualche cosa possa accadere. E questo qualcosa spesso non è possibile prevedere.
Alessandro racconta che a volte inizia la lezione immaginando di seguire una certa direzione, poi però interviene qualcuno che dice qualcosa. Intuisce che c’è del materiale interessante lì sotto e così pone delle domande, usandole come se fossero delle leve. A quel punto non sa nemmeno lui dove andrà a finire il discorso, cosa troveranno alla fine. Forse qualche cosa che già conosce, altre volte è pura scoperta, anche per lui. Anche questo è uno strumento fondamentale: “Se vuoi insegnare, devi anzitutto saper imparare. In fondo noi insegnanti siamo forti soprattutto della nostra mancanza e della nostra ricerca. Non ciò che sappiamo, ma il nostro non sapere. Anche questo è socratico in fondo”. Non esista nulla che non sia in grado di alimentare l’apprendimento: un articolo, una notizia, una poesia, un’immagine.
È dentro questa cornice che in questo anno scolastico hanno realizzato un’esperienza che da qualche tempo sognavano di realizzare con i ragazzi, quella del cammino, del camminare. L’idea era quella di percorrere cento chilometri del cammino di Santiago. Per una serie di ragioni non sono arrivati a questo traguardo, ma sono invece riusciti a fare ben centocinquanta chilometri in Italia, lungo la via Francigena, fra Siena e Bolsena. I costi sono stati contenuti e le famiglie hanno dovuto contribuire solo per il 20% della spesa finale. Al resto hanno pensato amici e colleghi donatori, che hanno creduto all’idea.
Sono stati sei giorni bellissimi, intensi, veri. I ragazzi si sono fidati e sono partiti. È stata in tutto e per tutto una settimana di scuola! Se per scuola non intendiamo il banco e la sedia, ma ogni qualvolta noi mettiamo i ragazzi nella condizione di imparare, di apprendere, di scoprire, di crescere. Il cammino è stato tutto questo: scoperta di sé, dei propri limiti e delle proprie risorse; scoperta degli altri; scoperta del paesaggio, dalla bellezza della natura a quella delle opere d’arte di cui l’Italia è sovrabbondante e che all’istituto tecnico, non riescono a studiare; incontro con altre persone, con realtà sociali, operatori del volontariato. È l’apprendimento esperienziale, dove le cose le impari perché le tocchi con mano, perché lo vedi con i tuoi occhi che se si fa gruppo si arriva, se si lascia ciascuno a se stesso, almeno la metà rimane per strada.
Alessandro mi lascia con un ultimo pensiero, che racchiude tutto il senso della nostra intervista: “Penso che l’insegnante non sia altro che un viaggiatore. Tanto quanto i suoi allievi. Intendo l’opposto di ‘sentirsi arrivati’. Racconto loro ciò che ho visto fin qui, ciò che ho potuto incontrare e capire. E la voglia di scoprire ancora affinché possa trasmettere anche a loro, prima di tutto, la voglia di mettersi in viaggio. Per la loro strada, per quella che sarà la loro misura (cito volentieri il recentissimo “La misura eroica” di Andrea Marcolongo). Ma sono, siamo viaggiatori. Questo rende difficile il nostro mestiere ma, dal mio punto di vista, è anche uno dei motivi per cui rimane prezioso e ogni giorno stimolante”.
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