Radici: il 4 giugno, a Pollenzo, il nuovo spettacolo del gruppo Giochi di luci e ombre
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Cuneo - Su Italia che Cambia vi abbiamo parlato (e a lungo) del bellissimo progetto di Giochi di Luci e Ombre, tanto da produrre un documentario sull’esperienza teatrale che ha visto protagonisti giovani studentesse universitarie e detenuti del carcere di Opera a Milano.
Ora che tutte le ragazze hanno concluso il percorso universitario e ad Opera è cambiata la direzione del carcere, il progetto non si ferma certo qui: il 4 giugno 2018, in occasione del Migranti Film Festival organizzato dall’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo, il gruppo di Giochi di Luci e Ombre chiuderà infatti il Festival presentando il nuovo spettacolo teatrale, “Radici”, presso la Chiesa di San Vittore in Piazza Vittorio Emanuele II, a Pollenzo. Abbiamo incontrato la regista dello spettacolo, Margherita Papi, e gli abbiamo fatto alcune domande sul nuovo spettacolo.
Innanzitutto il nome, “Radici”? Perché questo nome?
“Il nome del nostro nuovo spettacolo, “Radici”, è nato per l’attenzione che abbiamo voluto dare al senso di appartenenza, visto da diverse angolazioni e punti di vista come siamo solite fare nei nostri testi a teatro. Avevamo tantissime idee e temi che avremmo voluto affrontare, però abbiamo sentito l’urgenza di affrontare il tema del lasciar andare, del lasciar scorrere: infatti uno dei nostri punti di riferimento all’interno del carcere, Davide, ha ottenuto l’articolo 21 ed è stato trasferito in un’altra sezione del carcere, dopo quattordici anni di conoscenza con gli altri partecipanti del gruppo. Abbiamo sentito la forte esigenza di affrontare il vuoto che lui ha lasciato, e abbiamo fatto insieme una serie di esercizi corporei e fisici appositi, per lavorare sul tema del lasciar andare chi deve andare e, allo stesso tempo, rimanere centrati su se stessi. Parte dello spettacolo, in alcuni passaggi scenografici, nasce da questi esercizi fatti insieme ai partecipanti detenuti, che nel momento in cui diventano parte dello spettacolo sono una parte di noi che libera le nostre emozioni: il famoso limbo di gioco tra realtà e finzione è sempre presente ed è una delle caratteristiche importanti del progetto di Giochi di luci e ombre”.
Oltre a questa parte, assume importanza il ruolo del cibo…
“Il cibo è un varco: si comincia a parlare di qualche pietanza, di qualche ricetta e si finisce per ricordare tutt’altro, come il luogo dove lo si è mangiato, le caratteristiche degli abitanti di quel luogo e la morfologia di un territorio. Abbiamo ricevuto l’invito da Dario Leone, il direttore del Migranti Film Festival di Pollenzo, di portare nuovamente un nostro spettacolo a conclusione dell’edizione 2018 del Festival e abbiamo così pensato di fare un omaggio a questa iniziativa: dato che il Migranti Film Festival nasce da un’iniziativa dell’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo, abbiamo deciso di parlare del cibo.
Tutti i nostri incontri finalizzati alla preparazione di questo spettacolo sono stati caratterizzati da racconti legati al cibo: i ragazzi detenuti ci hanno parlato della loro infanzia, dell’adolescenza e di alcuni episodi della vita pre-carceraria legati a questo tema. Allo stesso tempo ci hanno raccontato come viene vissuto il cibo in carcere, che cosa significa cucinare in questo luogo, spesso con mezzi di fortuna, senza coltelli o utilizzando strumenti adattati alla cucina. Sono usciti moltissimi stimoli, li abbiamo colti al volo e questi discorsi sono divenuti dei veri e propri brani teatrali, che raccontano di ricette culinarie che tessono una delicata strada tra passato e presente, un filo narrativo per far incontrare il mondo del carcere con l’esterno, perché questo rimane il nostro obiettivo fondamentale.
Inoltre abbiamo voluto omaggiare anche il Migranti Film Festival preparando dei brani volti all’incontro tra culture e lingue diverse: ad esempio Mohamed, uno dei membri del nostro gruppo che viene dal Marocco, ha vissuto metà della sua vita tra l’Italia e il suo paese. Oggi non parla fluentemente nessuna delle due lingue, per questo durante la preparazione dello spettacolo abbiamo fatto insieme un laboratorio di recupero dell’arabo e allo stesso tempo abbiamo aggiunto, al suo vocabolario, alcune parole che lui non conosceva in italiano. Il suo pezzo sarà un incontro tra le due lingue”.
Sei emozionata per il tuo esordio alla regia?
“Il nostro progetto, fin dai suoi albori, è un progetto corale, dove le decisioni e i modus operandi vengono decisi il più possibile insieme. Allo stesso tempo, come un gioco di luci e ombre, siamo consce dell’importanza dei ruoli ben definiti: uno dei nostri punti di riferimento all’interno del carcere, Davide, è stato trasferito in un altra sezione del carcere, dopo quattordici anni di conoscenza con gli altri partecipanti del gruppo. Per questo abbiamo deciso che fossi io a fare il grande salto e occuparmi della regia: mi fa stare bene svolgere questo ruolo, è un attività che sento particolarmente mia e mi fa stare bene. Ho una grande voglia di formarmi e migliorare, unita ad un grande senso di responsabilità per il progetto. Il mio esordio è stato dunque complesso ma emozionante: mi sono sempre sentita sostenuta dal gruppo, rimane un lavoro corale nella quale gran parte delle scelte rimangono condivise”.
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