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Un avvocato ed un designer appassionati e attenti alla moda etica hanno passato gli ultimi anni a cercare realtà socialmente ed ambientalmente responsabili dove andare a comprare i loro abiti. Dopo essersi resi conto delle difficoltà che incontra un consumatore nel raccogliere le informazioni necessarie, hanno deciso di proporre una soluzione con Dress The Change. Ecco la prima parte della nostra intervista a Cecilia Frajoli Gualdi, co-ideatrice insieme a Fabio Pulsinelli di questo progetto.
Che cos’è Dress The Change e come è nata l’idea?
Dress The Change è una piattaforma che offre informazioni ai consumatori per accompagnarli in scelte di acquisto responsabili di capi di abbigliamento. Offre sia notizie ed aggiornamenti nel campo della moda etica e sostenibile che recensisce brand che realizzano i loro capi in modo ambientatemene e socialmente responsabile al fine di rendere più agevole l’accesso alle informazioni per il consumatore.
Il progetto è nato da una nostra esigenza. La visione del documentario “The true cost” (che consigliamo di cuore di vedere) ha cambiato profondamente il nostro approccio all’acquisto di capi di abbigliamento, obbligandoci a porci numerosi interrogativi fino a quel momento mai considerati. Una volta deciso di cambiare il nostro approccio all’acquisto di abiti ci siamo resi conto di quanto fosse difficile trovare negozi o realtà imprenditoriali che realizzassero i loro capi senza lo sfruttamento della forza lavoro e dell’ambiente. Da qui è nata l’idea di creare Dressthechange. L’occasione per passare dall’idea alla pratica è stato un bando di crowdfunding di Banca Etica grazie al quale (oltre al supporto di numerosi sostenitori) abbiamo raccolto il necessario per realizzare la piattaforma.
La piattaforma è già attiva?
Si la piattaforma è attiva da novembre 2017.
Che cosa si intende per moda etica?
Se andiamo a cercare sull’enciclopedia Treccani il termine “moda etica”, questa viene definita come quel “Settore del sistema moda che si propone di dare impulso allo sviluppo sociale e alla sostenibilità ambientale, nel rispetto dei diritti e delle condizioni di lavoro della manodopera impiegata”. Insomma, un settore della moda che produce capi di abbigliamento improntati alla sostenibilità ambientale e/o umana, cercando di coniugare etica ed estetica.
Il termine “moda etica” è iniziato a circolare fra i più a seguito della tragedia di Rana Plaza, in cui il 24 aprile del 2013 crollò a Dacca una palazzina di otto piani dove erano collocate 5 diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali. Nel crollo dell’edificio morirono 1.129 persone e ne rimasero ferite più di 2.500. Solo a seguito di questa terribile tragedia il mondo ha iniziato a rendersi conto delle conseguenze umane del frenetico mercato della moda.
Come riconoscerla?
Elemento fondamentale e caratterizzante l’impresa di moda etica è la trasparenza. Solo attraverso una filiera di produzione trasparente è possibile monitorare che non avvengano abusi umani ed ambientali. Per quanto riguarda il profilo ambientale e l’origine delle materie prime esistono numerose certificazioni che garantiscono l’origine, la natura e le modalità di lavorazione e trattamento del prodotto. Per quanto riguarda, invece, il profilo dei lavoratori non esistono al momento (ad eccezione del certificato della Fair Trade) certificazioni che attestino, ad opera di un soggetto terzo ed imparziale, che vengano effettivamente rispettati i diritti dei lavoratori. Tutto si basa su attività volontarie delle singole realtà imprenditoriali.
Da diversi anni molte grandi aziende nel campo della moda hanno iniziato sempre di più a familiarizzare con l’acronimo RSI, Responsabilità Sociale d’Impresa, o con il suo equivalente inglese CSR, Corporate Social Responsibility. Con questa espressione ci si riferisce a quell’insieme di studi, politiche, azioni interne ed esterne messe in atto, su base volontaria, dall’azienda stessa, con l’obiettivo di analizzare e migliorare le implicazioni di natura “etica” della propria strategia d’impresa. Il fatto che tali iniziative siano di natura “volontaria” è di fondamentale importanza, perché aiuta a mettere subito in luce le potenzialità e i limiti del sistema.
Del resto però, il carattere volontario della RSI, oltre a rendere evidente l’attuale vuoto normativo sul tema (in ambito nazionale, ma anche e soprattutto a livello europeo), finisce in alcuni casi per creare confusione e approssimazione nei criteri e nei settori di applicazione, non senza una spesso arbitraria selezione degli ambiti di intervento.
Se infatti non v’è dubbio che uno dei pilatri della RSI sia costituito dal tema dell’impatto ambientale della catena di produzione (dall’emissione di CO2 all’inquinamento delle acque, passando per l’utilizzo dei materiali di riciclo e la tutela delle specie animali protette), ci sono altre due componenti che non possono essere poste in secondo piano: la governance aziendale e il rispetto dei diritti umani.
Quest’ultima soprattutto nel settore tessile trova applicazione in una serie di requisiti relativi principalmente al trattamento dei lavoratori, tra i quali si possono citare l’esclusione del lavoro minorile, il rispetto di orari di lavoro e di retribuzione dignitosa, la sicurezza e la salubrità del posto di lavoro, la libertà di associazionismo sindacale e il divieto di qualsiasi forma di discriminazione.
Ebbene, non è raro ritrovare veri e propri colossi della moda schierati in prima linea su temi ambientali, ma che omettono completamente di trattare questioni legate al rispetto e salvaguardia dei diritti umani e dei lavoratori.
Pensate che negli ultimi anni ci sia una maggior attenzione all’etica e alla sostenibilità da parte delle aziende di moda? Perché?
Sicuramente negli ultimi anni un sempre maggior numero di imprese ha deciso di investire nell’etica e nella sostenibilità, sia sociale che ambientale. Questo, oltre che per nobili questioni etiche, anche perché sta lentamente aumentando la richiesta da parte dei consumatori di una moda responsabile.
La società di consulenza PWC ha presentato nel giugno del 2016 un’indagine riguardante il punto di vista dei Millennials in merito alla sostenibilità nel campo della moda. È emerso, infatti, come se informati sull’universo che risiede dietro all’industria del tessile i giovani (l’81% degli intervistati) si dimostrano disposto a pagare i propri abiti un prezzo maggiore purché vengano rispettate le minime condizioni di lavoro degli operai e rispettate le normative sulla preservazione dell’ambiente.
Noi stessi, durante un incontro di sensibilizzazione che abbiamo avuto con un gruppo ristretto di 18/20 enni, abbiamo potuto vedere come, una volta mostrato ai ragazzi quali fosse l’effettivo impatto economico prodotto su un indumento a fronte del garantire un salario minimo garantito ai lavoratori del tessile (dati di Fashion Revolution dimostrano che l’aumento sarebbe di 1.57 euro su un capo che ne costa 29), tutti si siano dichiarati disposti a sostenere la spesa maggiore a fronte di maggiori garanzie per i lavoratori. Dalla ricerca è emerso anche come sia sempre più alta la richiesta di ricevere maggiori informazioni sull’origine e la lavorazione dei propri abiti. La stessa ricerca afferma che il 41% dei giovani intervistati abbia dichiarato che la sostenibilità possa aumentare in modo rilevante la loro propensione alla fidelizzazione con il brand.
Tutti questi dati sono idonei a dimostrare come i consumatori di domani possano influire notevolmente sulle politiche sociali ed economiche del mercato dell’industria del tessile.
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