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All’inizio, quando Alessandra, la sadica direttrice di Italia che Cambia, mi ha buttato là col suo fare innocente la proposta di scrivere un pezzo sulla situazione caotica di questi giorni ho avuto un’idea. Ho pensato “faccio un bel titolo a effetto, tipo ‘Ecco cosa ne penso della decisione di Mattarella’ oppure ‘Chi ha sbagliato fra Mattarella, Salvini e Di Maio’ e poi lascio l’articolo in bianco”. Lo spunto scanzonato e un po’ surrealista mi arrivava da una riflessione ben più amara: qualsiasi cosa avessi scritto nell’articolo, essa non avrebbe sortito alcun effetto all’interno del caos urlato del dibattito attuale.
Quando i toni si infiammano si alzano le barriere protettive e nessuno è più disposto ad ascoltare. Ho seguito centinaia di thread online su varie piattaforme e nella mia personale statistica gli utenti che cambiano opinione nel corso della discussione rappresentano una percentuale irrilevante. Quindi a che serve esternare una propria opinione in questo contesto? Be’, a tante cose: serve a raccogliere attorno a sé chi già la pensa in maniera simile, ad allontanare chi invece la pensa diversamente, a sfogare la propria frustrazione, a fomentare il conflitto, ad autocompiacersi. NON serve a: far riflettere le persone, evolvere il dibattito, modificare la realtà delle cose. Perciò, se per qualche strano motivo avevate come obiettivo una di queste ultime cose, rinunciateci, è tempo perso. Quando i toni si alzano e si innesca una spirale in cui pur di farsi sentire ognuno grida più forte degli altri, spesso la strategia migliore, l’unica idea sensata, è restare in silenzio. Non dire nulla. Ed ecco l’idea della pagina bianca.
Poi ho pensato che anche un articolo in bianco poteva essere letto (si fa per dire) in maniera molteplice: “Ha lasciato la pagina bianca perché è indignato!”, “Non ha scritto nulla perché pensa che la questione non sia importante”, “Non vuole schierarsi”. Ah, quanti significati può avere il silenzio! Ed eccomi dunque ad aggiungere altre parole a quelle che sono state già dette, gettare anche la mia goccia nel fiume strabordante d’inchiostro virtuale che ha invaso i nostri schermi. Senza alcuna pretesa di avere un peso, sia chiaro. Lo faccio solo per autocompiacimento: d’altra parte scrivere mi piace, mi gratifica e mi fa pensare meglio.
Proverò ad offrire una visione alternativa, non politica bensì analitica, di ciò che sta avvenendo. E a sostenere come, prendendo per veri gli obiettivi dichiarati dalle varie parti in causa – cosa, lo so, tutt’altro che scontata, ma non fa poi molta differenza ai fini di questa analisi -, abbiano sbagliato tutti.
Partiamo dal Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella, nel suo discorso al Paese con cui metteva fine al fallimentare tentativo di formare un governo politico, ha citato più volte le ragioni degli investitori e la sicurezza dei risparmiatori italiani. L’obiettivo che ha guidato la sua decisione è stato quello di evitare che un ministero chiave, quello dell’economia, finisse in mano a qualcuno che avrebbe potuto allertare i mercati e mandare in sofferenza il debito italiano. Mattarella si preoccupa della stabilità dello Stato e oggi, la stabilità dello Stato passa anche, soprattutto, per la fiducia dei mercati. Significa che il mercato condiziona fortemente la nostra politica e sottrae potere alla nostra democrazia? Già, proprio così. Ma è lo stato dei fatti.
Ora, ammettendo che l’obiettivo di Mattarella sia la ricerca di stabilità, perché ritengo che abbia sbagliato? Per vari motivi: innanzitutto perché assecondare i mercati e i loro indicatori senza avere in mano alcuna strategia a lungo termine somiglia molto ad una lenta agonia, più che ad una strategia di adattamento. Tutte le analisi sistemiche di cui disponiamo sembrano dimostrare che il periodo contemporaneo, caratterizzato – ipersemplificando – dalla fine del petrolio a buon mercato, si distingue dalle precedenti crisi cicliche del capitalismo e somiglia più ad una crisi sistemica. Per chi volesse approfondire consiglio la bella analisi di Luca Pardi sul blog di Aspo Italia La contrazione economica che ne consegue sfocia, in Europa, nella crisi del debito sovrano di alcuni paesi. Una crisi che non si può risolvere con semplici misure di breve termine, volte ad assecondare gli umori del mercato, ma che necessita di cambiamenti strutturali ben più profondi.
In secondo luogo ha sbagliato perché così facendo ha alimentato ciò che cercava di evitare: proibire qualcosa ai tempi della democrazia digitale liquida significa renderla inevitabile. Il suo gesto autorevole può essere facilmente letto come una imposizione autoritaria e antidemocratica ed aumentare il peso elettorale soprattutto della forza, la Lega, che più di tutte aveva espresso posizioni euroscettiche.
Passiamo adesso a Salvini e Di Maio. Il loro scopo, in questo frangente, era portare avanti in ambito europeo una politica cosiddetta sovranista, che restituisse potere contrattuale allo Stato italiano di fronte a un’Unione europea a trazione tedesca. Qui il discorso si fa un po’ più complesso e toccherebbe di nuovo tirare in ballo le dinamiche dei sistemi. Ma senza stare a farla troppo lunga (se invece vi va di approfondire trovate qualcosa che avevo scritto tempo fa qui) il punto è che andare a sbattere i pugni sul tavolo dei poteri forti non serve quasi mai a nulla. Innanzitutto perché i poteri forti sono, per l’appunto, forti. E non si fanno intimidire se uno fa la voce grossa. Voi ci salireste sul ring contro Mike Tyson? Io no, ma non per pavidità eh! O almeno non solo. Più che altro perché è una strategia suicida, non esiste quasi possibilità di vittoria.
E così avviene che quando proviamo a giocare al gioco della guerra con i poteri forti: in genere perdiamo (il caso della Grecia è esemplificativo). E se anche una volta su mille vinciamo, il potere forte sconfitto quasi sempre viene sostituito da un nuovo potere, ancora più forte e con dei begli anticorpi al posto giusto. Oppure – ancor più raramente, come nei casi delle grandi rivoluzioni – avviene che ci trasformiamo noi nel nuovo potere forte, e spesso non siamo meglio del precedente. Questo avviene perché non abbiamo cambiato niente nel funzionamento della scatola: non abbiamo cambiato – non capendoli – i meccanismi che regolano il sistema ma abbiamo semplicemente sostituito un pezzo con un altro. Giocare al gioco dello scontro, della guerra, della rabbia, della frustrazione, della violenza porterà sempre e comunque ad un risultato in cui ci saranno carnefici e vittime, vincitori e vinti, potenti e deboli. Dunque la strategia proposta da Salvini e Di Maio in ambito europeo era fallimentare in partenza e aveva ben poche probabilità di successo. Se per successo intendiamo un reale cambiamento del sistema.
Ora facciamo un passo indietro e proviamo a ragionare in un altro modo. Pensiamo al Presidente della Repubblica da una parte e ai due leader politici dall’altra come due simboli. Simboli di due diverse parti di noi. Immaginiamo di trovarci in una situazione difficile che si protrae da un po’: c’è una parte di noi che è stanca e incazzata, vorrebbe cambiare tutto, ribaltare lo status quo, in maniera irrazionale, rabbiosa, ribelle e istintiva. E poi c’è un’altra parte impaurita, conservativa, che ha paura delle conseguenze che quel cambiamento drastico potrebbe comportare. Ecco, probabilmente la soluzione non arriverà da nessuna delle due parti prese singolarmente. Se invece riusciamo ad osservare e ascoltare entrambe le nostre pulsioni è possibile che risolveremo la situazione mettendo in campo una strategia di cambiamento a lungo termine che al tempo stesso ci permetta di sopravvivere nell’immediato.
Tornando alla crisi istituzionale attuale, il problema è che, se già è difficile individualmente ascoltare tutte le parti di noi e dare a ciascuna il giusto peso, ciò è pressoché impossibile a livello politico e sociale, per come è strutturata la politica oggi. Il gioco politico in sé, per come è pensato, è incapace di coniugare le istanze diverse presenti all’interno della società. Piuttosto dà voce ad una soltanto di esse per volta, che si muove in maniera competitiva rispetto alle altre e finisce inevitabilmente per ricorrere a soluzioni parziali, incomplete, instabili. In queste condizioni avere un impatto significativo sulla realtà e cambiare quegli aspetti del sistema che non ci soddisfano è pressoché impossibile.
Tuttavia forse i tempi sono maturi per provare a cambiare le regole del gioco. Perché questo gioco ben poco democratico che chiamiamo democrazia non è l’unico possibile, né il migliore. Prima o poi mi deciderò a scrivere qualcosa di approfondito su quali siano i sistemi di governance che rappresentano le migliori alternative e alimentano le speranze di chi prova – seriamente – a cambiare il sistema. Per adesso si può iniziare dal far pace – anche se mi rendo conto che l’immagine è inquietante – con i nostri Mattarella, Di Maio e Salvini interiori e a non giudicare troppo male quelli degli altri.
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