Abitare illegale: dagli ecovillaggi ai pueblos ocupados
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Abitare rinchiusi tra le quattro mura di un appartamento preso in affitto o acquistato, all’interno di famiglie mononucleari, non solo è diffuso, ma è un modo di vivere che ha colonizzato l’immaginario, fino a sembrare l’unica alternativa.
C’è tuttavia un passato non troppo lontano in cui le case venivano costruite con l’aiuto di qualche familiare o amico, e si allargavano, cambiavano, al mutare delle esigenze dei suoi abitanti. C’è un passato in cui l’abitare, che Franco Remotti descrive come un punto di precario equilibrio tra la chiusura e l’apertura, tra il raccoglimento e l’aprirsi alla relazione sociale, non era tanto sbilanciato verso l’esclusione dell’altro come oggi. E c’è un presente, anche se spesso sconosciuto, in cui, ai margini dell’Occidente, si vive in modo informale o illegale. Per scelta, risignificando i propri spazi, o per necessità, mettendo in atto rituali di resistenza.
Andrea Staid (1), nel suo libro “Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente”, accompagna il lettore alla riscoperta del profondo rapporto fra uomo e casa, evidenziando che la parola “abitare” riporta ad “abitudine”, e che dunque l’abitare forgia le abitudini, l’identità, la relazione con lo spazio, con le persone e con il mondo.
È interessante osservare come, proprio quando il processo di omologazione e mercificazione dell’abitare, esploso con la Rivoluzione Industriale, sembra essersi stabilizzato, vi sia una crescente curiosità verso quelle pratiche abitative diverse (e forse sempre più comuni), che Staid riporta in modo polifonico, facendo parlare le persone incontrate sul campo.
Il racconto delle diverse declinazioni dell’abitare inizia con un capitolo dedicato ai romanés, popoli che hanno alle spalle una lunga storia di resistenza in nome di uno sfrenato amore per la libertà. Prosegue poi con le occupazioni, soffermandosi in particolare sulle esperienze di Milano e Barcellona. Queste pratiche vanno al di là di un semplice “mettersi contro” all’ingiustizia delle case sfitte (ci sono più case senza gente che gente senza casa), ma costruiscono intorno a loro una controcultura ed una rete di reciprocità.
A Milano, per esempio, esiste un cosiddetto “welfare autogestito” e creato dal basso, fatto di scuole di italiano per migranti, mercatini autogestiti di prodotti biologici, sport popolare gratuito per tutti, doposcuola per bambini, feste e cineforum. Dove ci sono le case occupate, al contrario di quanto vogliano far credere alcune frange politiche, c’è meno degrado e le possibilità sociali aumentano. Le occupazioni sono anche una risposta alla trasformazione delle città in vetrine per turisti, che ignorano le esigenze di chi le abita quotidianamente, come nel caso di Barcellona.
“Abitare illegale è permettersi qualcosa che ti è negato, vivere al di sopra delle possibilità date in partenza, mi sono presa quello che non mi avrebbero mai dato, mi sono presa la bellezza. Mi sono presa la mia intelligenza. (…)” testimonia una ricercatrice che, se avesse voluto permettersi una casa in affitto, avrebbe dovuto svendere il proprio tempo per fare qualche altro lavoro, invece di inseguire i propri sogni.
Lontano dalle città (e dalle loro periferie) c’è un ritorno alla natura, che si concretizza nella diffusione e crescita di comuni, ecovillaggi, fattorie anarchiche e villaggi spirituali.
Possiamo già intuire che siamo di fronte a un fenomeno molto eterogeneo, in cui troviamo sia comuni molto politicizzate dell’area anarchica che comunità cattoliche. Ciò che accomuna queste esperienze è la volontà di portare un cambiamento partendo dal vivere quotidiano, da un diverso modo di stare insieme, di interagire con lo spazio circostante e di esistere nel tempo.
Il penultimo capitolo è dedicato all’autocostruzione. In un’epoca che esalta la specializzazione, riappropriarsi del saper fare vuol dire riprendersi la propria libertà, materiale e mentale. Si tratta di un argomento trasversale, che abbraccia esperienze varie: dalla manutenzione delle case popolari occupate all’autocostruzione dopo il terremoto. Particolare attenzione è dedicata agli “autocostruttori consapevoli” che, dopo il terremoto in Emilia, hanno deciso di non vivere rinchiusi nei container, aspettando che lo Stato ricostruisca, ma di attivarsi in prima persona, con finalità che vanno dalla volontà di bloccare la speculazione edilizia e l’infiltrazione mafiosa, al desiderio di rinsaldare la comunità e di riattivare l’economia locale attraverso cantieri scuola.
“Autocostruire per autocostruirsi è ancora più importante dopo una tragedia naturale, bisogna far lavorare la gente dopo un terremoto, i bambini e anche gli adulti terrorizzati dal sisma se rimangono inermi dentro anonimi e freddi container si deprimono totalmente, autocostruirsi la propria casa o baracca temporanea è la possibilità di rinascere. Abitare non è solo la casa che hai, ma il contesto nel quale è inserita”.
Staid, infine, fotografa le condizioni di vita di coloro che si spingono alle frontiere della fortezza occidentale per cercare nuove possibilità di riscatto sociale, ritrovandosi schiacciate ai margini, in slum urbane e baraccopoli.
Uno dei fili rossi dei diversi modi di abitare che Staid porta è la relazione, l’appartenenza. E mentre in Europa, in Italia, televisioni e social media seminano angoscia e paura, invocando una sicurezza che è sinonimo del chiudere la porta a doppia mandata (o addirittura dell’avere delle armi in casa), viene da chiedersi se non sia preferibile la sicurezza dell’appartenenza, delle relazioni, della condivisione, delle porte aperte.
- Andrea Staid, autore di Abitare Illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente (2017), è docente di Antropologia culturale e Teoria e metodo dei mass media presso la Naba, dirige per Meltemi la collana Biblioteca /Antropologia. Per Milieu ha scritto I dannati della metropoli (2014) e Gli arditi del popolo (2015). È autore anche dei saggi Le nostre braccia (2011) e I senza Stato (2015).
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