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L’occasione era di quelle da non perdere. Incontrare, per la prima volta, Sebastião Salgado. Il grande fotografo brasiliano che ha documentato, attraverso le sue immagini, un pezzo di storia recente. E non solo. Attraverso la creazione dell’Istituto Terra, Salgado è riuscito, tra le tante attività realizzate nella sua lotta ambientalista, a riforestare una vecchia proprietà familiare nel sud-est del Brasile piantando circa due milioni di alberi di oltre 300 specie diverse che, in precedenza, crescevano in quel territorio.
L’incontro pubblico con Sebastião, organizzato dalla Fondazione Forma per la Fotografia presso la Galleria Meravigli di Milano, era previsto per venerdì 20 ottobre alle 11,30 del mattino. Immaginando una forte affluenza, mi sono presentato all’ingresso verso le nove, giunto nel capoluogo lombardo grazie ad un passaggio ricevuto da mio fratello che, casualmente, doveva essere a Milano per un impegno di lavoro. Osservando le persone che già erano arrivate nella galleria mi ha sorpreso, da subito, l’eterogeneità per età e tipologia, dei presenti.
In pochi secondi le sedie messe a disposizione dall’organizzazione erano piene (per fortuna ero riuscito a sedermi!), così tutti i nuovi arrivati si sono sono dovuti arrangiare in qualche modo, in piedi o per terra. Quando Salgado prese in mano il microfono, non c’era più uno spazio a disposizione.
“Nella mia vita lo scopo principale è stato quello di cercare di comprendere la nostra società e di raccontarla. Ho studiato da economista e ciò mi ha portato a realizzare La mano dell’uomo: questo lavoro voleva essere un ritratto della classe lavoratrice”.
La sua storia la conoscevo abbastanza bene. Avevo sentito parlare Sebastião in molti documentari, filmati, video di ogni genere. Non l’avevo però mai visto di persona. Quel che più mi incuriosiva quel giorno era, incontrandolo, di osservare attentamente i suoi occhi, le sue gesta, i suoi movimenti, l’inclinazione e la profondità della sua voce.
Non mi sorprendeva il fatto che avesse iniziato il suo discorso con il ricordo del suo passato da economista. “Quando acquistavamo un automobile negli anni passati, ogni singolo elemento di quella vettura era il prodotto di un intervento umano all’interno della catena di produzione che portava poi il prodotto ad essere finito. Tutto questo processo è cambiato con una velocità impressionante, e l’apporto dell’uomo è diventato sempre meno importante.
Così si sono creati decine di milioni di disoccupati, anche in Europa. Paesi come il mio Brasile, ma anche l’India, l’Indonesia, la Cina, si sono trasformati da paesi agricoli a paesi fortemente sviluppati. La mano dell’uomo che nasceva come archeologia del lavoro industriale per me, in realtà, è diventato un grandissimo omaggio ai lavoratori, in generale. Lavoratori che hanno contribuito, in maniera così fondamentale, allo sviluppo della nostra società”.
Inizia così a sovvenirmi un dubbio: è possibile considerare un grande fotografo, attraverso i suoi reportage e la consapevolezza data dai suoi precedenti studi sul tema, un grande economista? In teoria la stessa parola economia, che deriva dal greco, è composta da oikos che significa casa e nomos che significa dividere, ripartire. Letteralmente significa amministrazione della casa, anche nel senso ampio di comunità, società, stato. E chi più di una persona come Salgado può aver visto con i suoi occhi le condizioni – atroci e meravigliose – dell’uomo e di come sia stato in grado o meno di condividere il proprio ambiente con gli altri esseri sulla Terra?
“Sapete, quando ero alle prese con La mano dell’uomo, in quel periodo nessuno usava il termine globalizzazione”. Negli anni le trasformazioni e gli spostamenti nel mondo lavorativo sono stati tantissimi, e “questo è stato un disastro per la classe lavoratrice, perché questi cambiamenti sono stati violenti. In Italia, per esempio, c’era il partito Comunista. Uno dei più forti partiti comunisti d’Europa che era rappresentante di questa classe lavoratrice che, di fatto, è praticamente sparito, in termini di capacità di rappresentanza”. Tutto ciò perché la classe lavoratrice non aveva più la stessa importanza di prima. Tuttavia, “se voi pensate che i lavoratori che erano rappresentati in quel modo in Europa ora non ci siano più, non è così”. È in atto una progressiva trasformazione che sta generando nuove classi lavoratrici in altri paesi.
“Il Brasile, che era legato ad una economia agricola, è diventato un produttore industriale molto importante con una classe lavoratrice molto forte”. E allo stesso modo è capitato in Cina, in India e in tante altre zone del mondo. “Quand’ero un bambino e vivevo in Brasile, all’epoca il 90 % circa della popolazione viveva in territori rurali. Oggi, a distanza di sessantanni, il 90 % della popolazione vive in città. È stato un atto di urbanizzazione violenta, incredibile, senza sosta. Viviamo in una società fortemente urbana”. Ecco spiegato il forte interesse verso il tema del lavoro e dell’apporto dato dall’uomo, nel suo quotidiano atto in grado di trasformare la materia.
Consigliata, dunque, è l’osservazione dei 34 scatti in grande formato in bianco e nero della mostra “Kuwait, un deserto un fiamme” (2), visitabile fino al 28 gennaio presso Forma Meravigli a Milano. Si tratta di un reportage all’interno del più grande progetto La mano dell’Uomo. “Nella mia vita, ho seguito queste quattro o cinque grandi storie. Ho sempre fotografato ciò che è la mia vita. Tutto quello che ho fatto, nell’insieme, è lo specchio della mia vita”. Assieme a Other Americas, In cammino, Genesi (1), La mano dell’uomo è uno di questi grandi progetti seguiti dal fotografo brasiliano.
E proprio dopo la pubblicazione de La Mano dell’Uomo nacque in Sebãstiao la necessità di raccontare un altro aspetto che stava sconvolgendo la vita di milioni di persone. “La trasformazione di questa rivoluzione post industriale creava tragedia e necessità per centinaia di milioni di persone che si spostavano verso le città. Milioni di profughi sono stati costretti a spostarsi a muoversi e abbandonare il loro territorio alla ricerca di una stabilizzazione. Tuttavia la civiltà cosiddetta industriale non era più in grado di mantenere le promesse che aveva fatto e generava delle altre necessità. E questo ha dato origine a dei drammi forzati, a delle tragedie epiche che io ho voluto rappresentare. E insieme a Lelya – la moglie che l’ha aiutato e accompagnato il tutto la sua carriera – abbiamo deciso di intraprendere questa nuova avventura, questo secondo grande progetto che volevamo raccontare, che poi ha trovato il nome di In cammino”.
La voce di Salgado è un termometro della della sua personalità. È una voce profonda, che incede con gentilezza e calma, avanza lenta ma nitida, parola dopo parola. “Questo lavoro rappresenta i movimenti delle popolazioni, le migrazioni forzate per ragioni di guerra, di carestia, di diritti civili, di necessità”. Un progetto che è durato più di sette anni. “E’ stato molto importante perché mentre raccontavo la loro storia, raccontavo anche la mia storia”. Si era infatti trasferito dal Brasile in Europa a Parigi, dove attualmente vive.
“Durante la realizzazione del lavoro In cammino, ho vissuto dei momenti molto duri”. Ha fotografato la violenza nei Balcani, nella ex Jugoslavia. E poi in Africa, in Ruhanda, in Burundi, in Tanzania. “È arrivato un momento in cui ho raggiunto la saturazione. Una quantità di dolore – aggiunge con un tono della voce sempre più profondo – a cui davo visibilità che, però, era entrata dentro di me. Ho sentito che non ce la facevo più, stavo collassando. La fatica di assistere a tutto ciò era un dolore insopportabile. Così ho deciso di interrompere e sono andato in Brasile con Lelya”.
Un momento difficile. Un punto di non ritorno, una difficoltà nel credere ancora in questa umanità, così fragile e violenta. Il rientro in Brasile, nella terra natia, non poteva che fare bene a quel punto. “È stato il momento in cui i miei genitori mi hanno dato la possibilità di prendere in mano la fattoria in cui ero cresciuto, un pezzo di territorio della Mata Atlântica nello Stato di Mina Gerais.
Abbiamo deciso con Leyla – riprendendo forza e coraggio – di riforestare questa porzione di terra”. Con il progetto creato dall’Istituto Terra, ideato e realizzato da Salgado con la moglie, milioni di alberi sono stati ripiantati. “E da lì mi è anche ritornata la voglia di fotografare. Ho iniziato a pensare ad un progetto sulla parte di Terra che dobbiamo preservare. Questo progetto si chiama Genesi”. In poco tempo è divenuta la mostra più visitata della storia del fotografo brasiliano. “Queste mostre, questi lavori che ho fatto, come vedete, non sono tanti. Sono quattro – cinque grandi storie composte di tantissime altre piccole storie che insieme rappresentano la grande storia”.
“Voi sapete, sono un fotografo. Adoro fotografare, adoro la luce, adoro la composizione, adoro il gesto di fotografare. Quando ho una macchina fotografica in mano sento di non aver problemi. È un modo di vivere che mi rende felice. Anche andando avanti con gli anni, fotografare è veramente una gioia”.
In effetti Sebastião è appena rientrato dall’Amazzonia, dove ha trascorso due mesi della sua vita. “Dopo due operazioni alle ginocchia ero molto preoccupato”. Invece, stando lì a fotografare, “mi è tornata la forza. Non avevo nessun problema, nessun guaio, nessun dolore. Correvo dietro gli indiani nella foresta Amazzonica, mi sentivo in forze nonostante le condizioni. Tornato a Parigi, dopo pochi giorni, sono rincominciati i dolori”.
“Quando si vive come fotografo – chiude così il suo intervento il Salgado – si vive una dimensione unica e speciale. Noi non facciamo delle fotografie, noi riceviamo delle fotografie. È la realtà che noi cerchiamo di rappresentare che ci offre l’occasione di poterla rappresentare”. E noi ringraziamo lui per averle condivise con il mondo intero.
1 Leggi l’articolo Sebastião Salgado, il fotografo dall’unico grande obiettivo: illuminare il Pianeta
2. La storia di un grande disastro ambientale di ventisei anni fa che, attraverso i tragici e al contempo meravigliosi scatti di Salgado, sembra ancora essere una questione viva e contemporanea, in grado di scuotere la nostra coscienza.
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