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Avete presente quelle notizie che vi fulminano, vi fanno sentire come se una fiamma vi avesse arsi vivi nel giro di un decimo di secondo, come se il terreno vi avesse inghiottito, come se la vostra anima fosse stata risucchiata via dal corpo, ormai inutile contenitore vuoto? E poi, tornati in voi, realizzate che la vostra vita non sarà più come prima, irrimediabilmente cambiata.
Ad Andrea tutto questo è capitato circa quattro anni fa. Adenocarcinoma alla testa del pancreas, inoperabile, sentenza inappellabile. Dopo un lungo calvario di terapie inutili, per i medici non c’era più niente da fare. Ma per Andrea sì. Sconfitta (o forse tenuta a bada) la paura, elaborato il dolore, ha iniziato a camminare. Prima qualche chilometro nella sua città, poi sempre più in là, i sentieri dell’appennino, la via Francigena, il Cammino di Santiago, la Francia, la Spagna… e non si è più fermato, raccontando le sue avventure sulla pagina facebook “In cammino con il cancro”!
Perché camminare? Cos’è che ti ha fatto pensare proprio a questo e non magari a scrivere, buttarti sul lavoro o altro?
Perché camminare consente in qualche modo di rallentare il tempo e per una persona malata è un vero toccasana. È iniziato per caso, anche se mi è sempre piaciuto muovermi a piedi, ma camminare e coprire distanze che solo un anno fa potevano sembrare impossibili è stato un passaggio automatico, lento, graduale ma naturale. Sono il corpo stesso e la mia mente che lo chiedono: camminare in sostanza mi fa star bene. Dal camminare poi nascono infinite altre cose: è un ritorno alle origini, non è solo movimento. Inoltre la malattia mi ha tolto tutto, con l’invalidità obbligatoria per la patologia e con l’impossibilità di programmare il futuro, che forse fa più male della malattia stessa. Sono stato “costretto” a vedere la mia vita in maniera diversa e mi sono accorto che, paradossalmente, questa è la vera vita. Non è necessario però arrivare a navigare in mezzo a una tempesta per accorgersene, sarebbe più saggio capirlo anche in acque più tranquille.
Raccontaci cos’hai provato dopo 2248 chilometri, giunto a Finisterre, con davanti a te solo l’immensità del mare…
L’incontro con sua maestà l’oceano Atlantico non è avvenuto a Finisterre, ma a Muxia. L’emozione è stata forte, intensa e unica. Non solo perché ci sono arrivato a piedi, ma perché ho cercato l’energia dell’oceano, non è stato un caso. Mi sono goduto la sua potenza, vicino il Santuario de la “Nosa Señora da Barca”, di fronte a questo luogo sacro c’è la Pedra de Abalar (la pietra oscillante), una pietra che oscilla alla ricerca del proprio equilibrio. Un luogo particolare, un luogo di culto; sono in un posto magico e pieno di energia, di storia. Non solo per Fenici, Celti e Romani, anche per me è un luogo mistico, molto difficile da spiegare, ma ho avuto la sensazione, guardando le onde e seguendo il loro ritmo, che l’oceano mi stesse aspettando. Nel 2002 su questa costa, conosciuta con il nome di Costa de Morte (costa della morte) avvenne il naufragio della petroliera “Prestige”, un disastro ecologico. La notizia fece il giro del mondo in poche ore e in altrettanto poco tempo morirono decine di migliaia di uccelli marini, pesci e molluschi. Per una regione come la Galizia, dove l’economia è basata sulla pesca, fu una vera catastrofe. In lontananza ho visto delle grosse navi.
Mi sono guardato intorno e ho visto la normalità: la grandezza della natura ha fatto in modo di ritornare al suo stato primordiale, nonostante il nostro tentativo di distruggerla o almeno danneggiarla in parte. Sì, perché noi le stiamo provando tutte per autodistruggerci ma lei è talmente perfetta che resiste. Ho pensato alla malattia che mi affligge e in un certo senso ci ho trovato delle similitudini, ho pensato che in fondo il corpo è una macchina perfetta e desidera tornare in quello stato primordiale nonostante la grave ferita che il cancro gli ha provocato, forse io devo solo aiutarla questa macchina perfetta e camminare può essere un tentativo, un ritorno alle origini, al primordiale. Può aiutarmi ad andare avanti. È davanti questo blu intenso, davanti quest’oceano Atlantico che ho deciso, ho deciso tante cose, spero solo di avere il tempo per realizzarle.
Che sapore hanno cose che prima magari sembravano “normali” – un tramonto, un bicchiere di vino, una passeggiata – dopo tutta la strada che hai percorso?
In parte forse ti ho risposto nella prima domanda; non bisogna aspettare di essere malati per apprezzare le cose belle della vita e i momenti “normali”, ma purtroppo è così: quando il tempo stringe, ti accorgi che tutto è bello, che tutto è pieno di vita e che anche la cosa più banale ha un suo profondo significato. Non posso bere vino, ma gustare una tazza di tè davanti a un bel tramonto, oppure bere un succo di arancia in buona compagnia ed è piacevole ugualmente. Le cose hanno lo stesso “sapore” di prima, perché io non rinnego nemmeno un secondo della mia vita, solo che adesso assumono un significato diverso e anche solo svegliarsi al mattino, che può sembrare la cosa più banale e normale, a me fa sorridere e mi fa immediatamente pensare a quanto sono fortunato ad aver aperto gli occhi un altro giorno.
Cosa si prova a convivere con un “male incurabile”?
Ci sono ovviamente le giornate tristi, i momenti di dolore sono inevitabili, ma ci vivo normalmente, ci devo vivere compatibilmente con la natura del mio male, cerco di riconoscere i segnali di allarme che il corpo mi manda e vado avanti. Ci penso continuamente a differenza di come uno può immaginare. Sapere che il mio tumore è inoperabile e a oggi il cancro alla testa del pancreas ha un esito sfavorevole nella maggioranza dei casi, per non dire su tutti, mi da la forza di sperare che qualcosa possa cambiare. Ottimismo! La vita è molto importante e proprio perché sono stato “investito” in pieno da questa malattia, senza preavviso, senza presentazioni che cerco di conviverci nel modo più indolore possibile. La forza la trovo nelle persone che mi vogliono bene, in mia moglie, i miei familiari e qualche amico/a. Per il resto ci vivo serenamente.
Qual è il messaggio per chi si trova al punto in cui eri tu quattro anni fa?
Per prima cosa non lo auguro neanche al mio peggior nemico. Comunque sia l’unica cosa che posso dire e credere in se stessi, avere fiducia nella scienza e nella medicina, perché in questo campo i passi che si fanno sono notevoli, anche se la ricerca andrebbe finanziata maggiormente. Non perdere mai la speranza, anche quando, com’è capitato a me, dopo sedici mesi di terapia salvavita ci si sente dire che non è possibile fare altro. Parole dette non per far del male o per menefreghismo, ma proprio perché è così, è la realtà dei fatti, perché la malattia non ha una soluzione. Si deve continuare ad andare avanti, nel limite del possibile guardare al domani se non si può vedere il dopodomani, pensare che già è tanto ed esserne felici. Pensare positivo nonostante tutto e credere che la soluzione per vivere dignitosamente è dentro di noi.
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