13 Lug 2017

Io faccio così #176 – FabLab Milano: la fabbricazione digitale incontra la condivisione

Scritto da: Veronica Tarozzi

Un laboratorio di fabbricazione digitale completamente attrezzato, un luogo di condivisione e coworking aperto a studenti, docenti, imprese, ricercatori, artigiani, liberi professionisti. Situato nel quartiere della Bovisa, il FabLab Milano facilita lo scambio di idee e la nascita di nuovi progetti offrendo a chiunque la possibilità di sperimentare e acquisire competenze tecniche. 

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Milano - Alcuni mesi fa a Milano abbiamo intervistato il Lab Manager di FabLab Milano, Salvatore Saldano. Ecco cosa ci ha raccontato.

Fablab, come dice la parola stessa è un laboratorio di fabbricazione digitale, qui al FabLab Milano cosa fabbricate e come lavorate?
Il FabLab Milano è uno dei tanti laboratori nel mondo di fabbricazione digitale, ma ciò che forse lo rende speciale è che è partito da un progetto della fine degli anni 90 del Prof. Neil Gershenfeld del MIT di Boston che ai tempi decise di far mettere in pratica la materia di studio ai propri studenti, piuttosto che tenerli inchiodati sui libri. Da lì a poco è diventato un modello che poi è stato ripreso un po’ in tutto il mondo, arrivando in Italia nel 2011 al FabLab Torino e nel 2013, primo a Milano, è approdato al nostro FabLab Milano.

Ovviamente tutto ciò che facciamo è basato sulla fabbricazione digitale, sul rapporto tra ciò che è digitale e ciò che è materia, ovvero la trasformazione dal bit all’atomo. L’icona che rappresenta ciò che facciamo è la stampante 3D, che è poi anche lo strumento che ci permette di capire in maniera molto semplice come funziona questo passaggio dallo spazio virtuale fatto di bit, che è il computer, allo spazio reale fatto di materia costruendo appunto oggetti con la stampante 3D.

Al FabLab Milano affittiamo uno spazio molto grande: 350 mq interni e 350 mq di terrazzo, siamo vicini al Politecnico di Milano, Poli Design, e all’interno del nuovo polo manifatturiero di Milano. Per questo tra i nostri clienti e collaboratori abbiamo studenti, professori e aziende. Però chiunque può usufruire dei servizi che offriamo, primo fra tutti il “do it yourself” (fai da te, ndr): abbiamo uno spazio, degli strumenti, delle competenze e quindi ci sono delle risorse umane che si mettono a disposizione di chi ha bisogno di realizzare un progetto o se ha un problema con la sua stampante 3D e ha bisogno di una consulenza.

Abbiamo creato una community di persone che frequentano lo spazio regolarmente e si mettono a disposizione degli altri o semplicemente svolgono il loro lavoro come in un qualunque coworking. Uniamo l’aspetto del fare legato alla fabbricazione digitale con l’aspetto del coworking, mettendo a frutto l’eterogeneità delle competenze e delle persone che frequentano lo spazio. Questa eterogeneità è molto importante perché spesso genera preziose sinergie. Grazie al coworking abbiamo ragazzi che si occupano di videogame, altri che si occupano di grafica, di crowdfunding, stagisti, ragazzi che fanno alternanza scuola-lavoro: cerchiamo di diventare sempre più un contenitore per catalizzare diversi contenuti, affinché questi possano diventare più trasversali possibili.

Il fatto di avere dei ragazzi giovani, dei professionisti o in alcuni casi delle piccole startup ci porta a creare una sorta di filiera dove chi viene da fuori può trovare un servizio completo. Se qualcuno ha un bisogno inespresso, o un problema da risolvere, da noi è facile trovare una soluzione utilizzando diversi approcci. Ovviamente non siamo ferrati in tutto, né abbiamo questa aspirazione, però la passione che abbiamo nel condividere la conoscenza, che è poi la vera base culturale e motivazionale dei Fablab di tutto il mondo, ci porta ad essere sempre al passo coi tempi ed aggiornati e quindi il più delle volte riusciamo a trovare soluzioni più che soddisfacenti per i problemi più disparati.

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Cosa intendete per ritorno all’Umanesimo e al “saper fare”?
Siamo reduci da un periodo di depressione dovuto ad una crisi che ha messo in ginocchio il mondo intero, ma al tempo stesso, grazie ad internet, abbiamo avuto la fortuna di dar vita al movimento Open Source che ha facilitato la condivisione di tutto ciò che è legato al fare, cercando di connettere persone in tutto il mondo, rendendole informate ed abili su cose che poi un domani potrebbero fare in prima persona. Quindi il fatto di avere accesso a documentazione, informazione ed anche usare i social per condividere in maniera istantanea qualunque tipo di esperienza, genera un flusso di pensieri e di consapevolezza, che forse negli ultimi 30/40 anni si era un po’ perso.

Il fatto di dover delegare ad altri e non saper fare, perché tanto c’è qualcuno che lo sa già fare, ha portato ad avere sempre meno coscienza su quello che si fa. È proprio trascurando il saper fare che alla lunga sono venuti fuori i problemi come la scarsa etica imprenditoriale a livello della sostenibilità, con aziende che si concentrano solo sul profitto senza tenere in considerazione quello che di negativo generano con le loro attività. Quindi dando maggior consapevolezza, facendo conoscere ed educando le persone anche su ciò che è ancora nuovo come la stampa 3D ad esempio, ci porta a ridurre i problemi e le eventuali criticità che sommate negli anni ci possono portare a un punto di non ritorno.

La fabbricazione digitale nasce dalla libera condivisione delle informazioni e spesso costituisce una sorta di passatempo, ma può diventare anche un’occupazione remunerativa?
L’Open Source, come dicevo prima dà una scintilla, con questa ci puoi accendere un fuoco, oppure spegnerlo. Quindi se hai passione in ciò che fai da quella scintilla può nascere una grossa fiamma. Non parlo di fiamme e scintille a caso, ma perché la passione è un vero e proprio fuoco, lo stesso fuoco che si è generato in me quando ho conosciuto i Fablab nel 2013.

Inizialmente ho cominciato a dedicarmi a questo settore come volontario, come alcuni dei ragazzi che sono qui, e poi con la passione e la voglia di fare, lo spirito di sacrificio e la voglia di raggiungere un obiettivo, sono riuscito a diventare Lab Manager del FabLab, visto che con un partner che è diventato socio, Loris Dall’Ava, abbiamo creato una startup che è Sharing Mode che da spin off è diventata azienda finanziatrice del FabLab stesso. Ma il fatto di aver avuto la fortuna di creare un business grazie al FabLab non mi ha portato certo a mollare il FabLab; non mi sembrava corretto anche perché io e tutte le persone che fanno parte del FabLab abbiamo dentro di noi la voglia di condividere, ma soprattutto di migliorarci e migliorare.

Quindi quando prendo gratuitamente un’informazione dalla rete dei makers, la faccio mia e poi la ricondivido, perché il mio amalgamare, aggiungere o magari togliere possa essere utile a qualcun altro e questo crea, oltre che ricchezza una crescita. Quindi non ho voluto abbandonare il progetto, bensì cercare di farlo crescere.

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Nel secolo scorso Gandhi ipotizzava che il movimento basato sull’autosufficienza locale dello Swadeshi potesse evolvere facendo in modo che si lavorasse da casa. Ci porteranno a questo le stampanti 3D?
Avendo noi un luogo fisico di riferimento, ma attingendo parte di ciò che facciamo da internet rendiamo locale ciò che è globale. Globale nel senso di rete, di network, di connessione con il mondo esterno. Essendo però locali abbiamo come punto di riferimento il luogo fisico in cui ci troviamo: siamo nel quartiere Bovisa e attraverso la nostra attività cerchiamo di far crescere il quartiere stesso con un valore aggiunto dato dalle nostre specifiche competenze. Ciò che lega molto il nostro quartiere con lo Swadeshi è il fatto che dando ad altri la possibilità di essere autosufficienti, riesci a produrre ricchezza, competenze, ed anche possibili partnership e sinergie che poi danno vita a nuovi progetti, nuove idee e nuovi sviluppi. Le stampanti 3D si trovano già in varie case e noi lavoriamo anche con numerosi privati cercando di aiutarli con i problemi che a volte sorgono con le loro stampanti domestiche.

Tra le varie idee che sono sorte, avete avuto quella di creare una rete di Fablab, è così?
Riguardo al progetto di network tra fablab, al momento devo ammettere che si sta rivelando di difficile realizzazione, almeno qui a Milano. Perché per quanto io abbia tutta la voglia di questo mondo di entrare in connessione con realtà locali milanesi, essendo dei progetti nati da privati, c’è una componente di sostenibilità economica che porta a guardare solo al proprio orticello. Quindi se io ho la mia società e questa mia società funziona, faccio fatica a collaborare con un altro che fa le mie stesse cose, perché magari ho paura che quell’altro mi soffi il lavoro. Ma questo modo di pensare è paradossale perché in antitesi con lo spirito che ha dato inizio al movimento dei fablab.

Per cui, pur tra mille difficoltà a livello locale, portiamo avanti questo intento anche in altri modi, ad esempio con delle attività come il Fablab Tour che facciamo insieme ad Intel, abbiamo coinvolto altri 9 fablab per portare nuove competenze, strumenti e progetti da condividere grazie alla connessione tra noi. Quindi se adesso come FabLab Milano riusciamo a collaborare con i Fablab di Padova, Verona, Palermo, Cagliari, Roma, Bologna, Cuneo, Torino e altri ancora, è perché c’è una rete, dei valori condivisi, ma altri aspetti che ci distinguono e che rendono il valore specifico di ciascuno.

Quindi il modo per disinnescare la competizione esistente tra i vari fablab è metterci intorno a un tavolo e cercare di evidenziare le nostre peculiarità: noi ad esempio siamo bravi con il 3D printing, altri con l’e-wearable, ovvero tutti quei dispositivi elettronici intelligenti che possono essere indossati, come lo smart whatch. In questo periodo con il Fablab Tour abbiamo lavorato intorno al concetto dell’”internet delle cose”: ovvero con la possibilità di mettere in connessione dei dispositivi online e controllarli da remoto o fare in modo che i dispositivi stessi si controllino tra loro da remoto.

In questo caso l’e-wearable diventa uno strumento per controllare in maniera attiva le attività di altri dispositivi. Ho fatto l’esempio dello smart watch perché è quello più iconico, ma di wearables ce ne sono di diversi tipi ed esistono anche tanti progetti Open Source legati a questo concetto. Noi ad esempio ad un concorso di Intel abbiamo lavorato su un dispositivo che si chiama “Vita”, che attraverso un sensore è capace di rilevare i dati vitali di una persona per inviarli ad un parente o al proprio medico. L’internet delle cose entrerà sempre più a far parte del nostro quotidiano.

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Altri progetti?
Poiein: deriva dal greco e significa poesia. Gli abbiamo dato questo nome perché la poesia che vogliamo raccontare è quella del riuso di un oggetto che dovrebbe avere un valore ma è stato scartato a causa di un’imperfezione. Quindi insieme ad Anita Angelucci, una designer che ha avuto l’idea di riutilizzare questi oggetti, abbiamo deciso di riutilizzare gli scarti realizzati con il vetro di Murano lavorato. Il valore economico di un manufatto realizzato con vetro di Murano in origine è altissimo. Il mastro artigiano però quando inizia a plasmare il vetro, se trova delle venature o delle imperfezioni che reputa troppo pregiudicanti per il valore dell’oggetto finale, butta via l’oggetto.

Sicché Anita ed io abbiamo cercato di ridare valore a questo oggetto e, visto che spesso l’oggetto in questione non ha una forma ben definita che permetta una vera e propria funzione, abbiamo deciso di farci aiutare dalla tecnologia 3D raccontando l’ibridazione tra l’artigianato classico e quello attuale, ovvero l’artigianato digitale. Per fare ciò abbiamo scansionato in 3D l’oggetto, unico nella sua imperfezione, per costruire, tramite modellazione 3D un reticolo che faccia da protesi all’oggetto. In questo modo sia la protesi che l’oggetto diventano funzionali e dipendenti l’uno dall’altro e l’oggetto originario può diventare così da scarto che era, ad esempio un vaso porta fiori.

Cos’è per te l’Italia che cambia?
Dopo questo periodo di crisi che ha messo in ginocchio tutti quanti, questo è un momento di reset dove tutti partiamo più o meno da zero e quindi è un’occasione per ripartire e magari costruire una strada migliore. Il vento del cambiamento soffia già da tempo, per cui gli strumenti ci sono, le tecnologie e le informazioni sono sempre più accessibili, quindi cerchiamo di rimboccarci le maniche e riprendere la cultura del fare che ha contraddistinto l’Italia negli ultimi secoli. Pur essendo consapevole che ci saranno sempre degli ostacoli da superare, il mio auspicio è che ci diamo da fare perché le possibilità ci sono, basta crederci!

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