1 Giu 2017

Limiti di età nei bandi agricoli: è giusto metterli?

Scritto da: Francesco Bevilacqua

Abbiamo chiesto a quattro esperti di progetti agricoli virtuosi cosa pensano della tendenza a privilegiare i giovani nella concessione di terreni, immobili o finanziamenti utili per avviare nuovi progetti rurali. Ne è sortito un interessante dibattito con diverse posizioni.

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Negli ultimi tempi si sono presentate diverse opportunità per avviare attività agricole o rurali, con agevolazioni, concessioni gratuite di terreni e fabbricati, proposte di incubazione di progetti virtuosi. Dal bando Ismea all’iniziativa del Demanio relativa a masserie e antichi caseggiati da recuperare, fino alla Banca della Terra, ormai diffusa in molte regioni. Il minimo comune denominatore di molte di queste proposte è però l’età: quasi tutte infatti sono rivolte ai soli under 40 o addirittura 35. Ma è giusto porre limiti di età nei bandi agricoli? I giovani devono essere privilegiati rispetto ai meno giovani? Lo abbiamo chiesto a quattro “addetti ai lavori”.

terre4La prima a parlare è Lia Taddei, promotrice di un’iniziativa che ha avuto un grandissimo successo, unica nel suo genere in Italia, chiamata Antiche terre giovani progetti, attraverso la quale ha deciso di concedere gratuitamente i terreni di cui è proprietaria a giovani che volevano avviare attività agricole innovative, virtuose e sostenibili.

 

«A mio avviso bisogna decidere chi si vuol privilegiare: i giovani oggi sono la categoria maggiormente penalizzata, sono senza futuro, senza prospettive; per questo noi ci siamo rivolti essenzialmente a loro, per offrire una piccola opportunità. Detto questo, tutti hanno gli stessi diritti, ma se per un anziano l’attività agricola può essere un hobby, per un giovane si tratta di prospettiva di vita. Penso che senza lavoro per i giovani una società non possa andare lontano. Ci sono anche i cinquantenni che hanno perso il lavoro e cercano nella terra un’opportunità, ma fra le 650 candidature che mi sono arrivate, questi erano una piccola minoranza rispetto all’enorme quantità di giovani laureati disoccupati».

 

Emanuele Carissimi è uno dei rappresentanti più attivi del GAT Scansano, un progetto agricolo partito grazie alla sottoscrizione di decine di persone. «La domanda è interessante – ci dice Emanuele – e la risposta è molto complessa. Dal punto di vista dell’esperienza, direi che sarebbe meglio aumentare il limite di età, mettendo comunque dei limiti, perché mi pare che siano molti gli over 40 che si mettono in gioco in agricoltura e che devono fare tutto da soli. Allo stesso tempo tuttavia, vedo poche speranze di riabilitare il sistema agricolo se aiutiamo i sessantenni. Ovviamente la legge parte dal presupposto che i giovani non abbiano capacità finanziarie e che un quarantenne invece abbia alle spalle una vita lavorativa che possa coprire questa mancanza. Ormai però, in molti casi questo non è più vero e quindi sarebbe meglio estendere gli aiuti».

autosufficienza1

Altro presupposto di legge è quello di tentare un rinnovo generazionale: «Dal mio punto di vista – continua Emanuele – questo aspetto è legato a una variazione di mentalità piuttosto che alla possibilità economica. Troppe iniziative di giovani in campagna si perdono facilmente nella burocrazia e nel mancato ritorno economico di un’attività che ormai è soltanto l’attrattiva personale di un finto ritorno alla natura. Non dimentichiamoci poi che siamo in Italia, dove tutti cercano di avere dei vantaggi dallo Stato. La maggior parte dei contributi vanno ai rinnovi generazionali, dove il figlio subentrando al genitore riceve un aiuto economico togliendolo di fatto a chi vorrebbe iniziare da zero e che di quell’aiuto avrebbe maggiormente bisogno».

 

In parole povere, secondo Emanuele bisogna aiutare coloro che vogliono tornare alla campagna, ma alle giuste condizioni e con le giuste tutele, cambiando i limiti di età, ma anche tutte le leggi accessorie che di fatto limitano ogni tipo di lavoro. «Sarebbe molto meglio – conclude – eliminare i contributi e garantire un reddito dignitoso, anziché dare contributi a pioggia che alleviano solo temporaneamente un problema radicato e che limita notevolmente le speranze future».

 

Francesco Rosso è un giovane imprenditore agricolo che, forte di un’esperienza pluriennale nel campo editoriale trascorsa a occuparsi di temi legati all’ecologia, ha acquistato un vecchio terreno dismesso sulle colline romagnole e ha fondato la Fattoria dell’Autosufficienza, progetto incentrato sulla permacultura, sull’autoproduzione e sulla scoperta responsabile del territorio.

 

«Per come funzionano i bandi oggi – ci dice – penso che la cosa migliore sarebbe se non ci fossero proprio. Io ho acquistato 70 ettari di terra a 24 anni, un progetto ecologico, sociale, biologico, sperimentale e ad oggi (dopo 8 anni) non sono riuscito a prendere un finanziamento (neanche il primo insediamento) o perché le mie richieste sono state respinte o perché i bandi erano non interessanti e/o troppo vincolanti. Detto ciò quando si esclude qualcuno immagino che sia sempre difficile. Personalmente, piuttosto che fare selezione sull’età, la farei sull’impatto ambientale del progetto. Sei un azienda che inquina e che peggiora lo stato ambientale, sociale e dei beni comuni? Allora paghi tante tasse per compensare i tuoi danni! Se invece sei un’azienda che migliora l’ambiente, tratta bene i propri dipendenti, si impegna in azioni sociali, migliora la vita degli stakeholder, allora ti premio con un finanziamento, perché non puoi competere con chi distrugge».

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Gli agronomi Stefania Cannone e Silverio Liso, dell’Azienda Agricola Cali di Andria, in Puglia.


Sempre sulle colline si è insediato Gianni Fagnoli: laureato e precario da una vita, ha deciso di trasferirsi in campagna e avviare un’attività agricola biologica con l’obiettivo di creare filiere locali e sostenibili di varietà autoctone di frutta. Secondo lui, «la questione dei “requisiti anagrafici” andrebbe inclusa in una critica più ampia al senso attuale dei bandi agricoli e in generale all’accesso all’agricoltura. Parlo in particolare del Primo Insediamento, ma anche degli stessi requisiti pretesi per potersi iscrivere alla coltivazione diretta. Sembra quasi che per certi aspetti si riproponga la solita auto-alimentazione corporativa, cercando di privilegiare gli ingressi per avvantaggiare una riproduzione parentale della categoria. Ciò che viene preteso come “standard” di partenza discriminante, assieme alle modalità di svolgimento successive, spesso sembra fatto apposta per chi ha già in famiglia un’azienda agricola avviata, produttiva e meccanizzata, riducendo ad esempio un “primo insediamento” a un mero cambio di intestazione, eseguito allo scopo di incrementare redditi o investimenti di realtà già esistenti e attive».

 

In questo modo però si ottiene però l’effetto contrario. «Esattamente – osserva Gianni –, poiché si va a penalizzare chi si insedia fattivamente per la prima volta, privo dei mezzi di un’azienda già consolidata alle spalle, dedicandosi come agricoltore ad esempio al recupero di angoli dell’Appennino abbandonati da decenni di malora e incuria, riportandoli alla loro vocazione storica. Parlo delle migliaia di ex siti colonici abbandonati al degrado e all’oblio con l’esodo verso le città. Chiaramente sarebbe molto difficile per chi si dedicasse a un’opera pur meritoria (e a parole da tutti riconosciuta come tale) come questa, presentare “redditi presunti” o piani colturali di partenza in grado di fare accedere alla coltivazione diretta, oltre a non avere alcun aiuto (per forza di burocrazia nemmeno nell’acquisto della terra) che possa sostenere il reddito del contadino “pioniere” che va a ripopolare e lavorare l’Appennino per il tempo e le opere necessarie a rendere il sito nuovamente accessibile, riassettato nell’aspetto idraulico-forestale, bonificato da eventuali scempi e infine reso coltivabile».

 

«Nella mia esperienza personale – conclude Gianni – questo primo mancato riconoscimento di fatto (poi chiaramente le cose cambiano, e anche di molto, tra le varie regioni d’Italia) ha costituito un grande ostacolo che ho dovuto superare con le mie sole forze fisiche, economiche e morali, “elargitemi” a piene mani solo dalla passione per la mia Terra. Io credo che occorra in primo luogo mettere al centro il contenuto dei bandi nel valore che essi intendono riconoscere: non c’è età che tenga di fronte al merito di un progetto. Per un pretestuoso cambio di intestazione non darei un euro neanche ai diciottenni, per un progetto serio di recupero rurale che strappi alla malora un pezzo di appennino ne darei anche agli over 80».

 

 

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