Volontari che accolgono nella propria abitazione persone in difficoltà, ecco il servizio IESA
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Torino - Collegno (TO) – Con il termine IESA si intende un processo che porta all’inserimento di una persona seguita dai servizi psichiatrici all’interno di una famiglia ospitante, diversa da quella di origine, opportunamente selezionata ed abilitata. Per spiegarvelo meglio, facciamo che chiederlo direttamente al dottor Gianfranco Aluffi, referente e coordinatore e del servizio IESA.
Immaginando di raccontarlo ad uno che non sa cosa sia… Come descriverebbe lo IESA?
“E’ un acronimo che sta per Inserimento Etero-familiare Supportato per Adulti. Nell’acronimo, il termine forse più importante è nella esse di supportato: da la misura della differenza che c’è tra lo IESA e altre situazioni di affido. Nello IESA si individuano dei volontari nel tessuto sociale disposti ad accogliere presso la loro abitazione persone soprattutto sofferenti di disagio psichico. La nostra storia, la storia dello IESA, ha le sue origini in ambito psichiatrico. Accogliamo, tuttavia, anche persone con altro tipo di disagio, che non sono autosufficienti o che temporaneamente hanno bisogno di aiuto. Aiuto che possono trovare all’interno dell’abitazione di un volontario, un luogo caratterizzato dalla normalità e dalla quotidianità. Ciò rende molto più agevole il percorso di riabilitazione perché non prevede quel grande salto che solitamente c’è nelle dimissioni dagli Istituti o dalle comunità alla vita di tutti i giorni. Nel caso dello IESA il percorso terapeutico è, infatti, portato avanti all’interno di un luogo di quotidianità, all’interno di una civile abitazione.
Come sta andando questo percorso? Quali sono i numeri di utilizzo del servizio?
Lo IESA dell’ASL TO3 della Regione Piemonte è un servizio attivo da vent’anni. E’ stato una attività pionieristica anche a livello nazionale. Da questa esperienza – attraverso percorsi formativi – sono nati servizi IESA anche in altre ASL in Emilia Romagna, a Modena e a Bologna, in Toscana, a Firenze, Lucca, Pisa, ma anche in Lombardia, Veneto, Puglia ecc. Ci sono state parecchie ASL che hanno seguito questa esperienza e hanno sviluppato questo tipo di modello. In Piemonte abbiamo gestito quasi 250 convivenze: persone che anziché finire in comunità protette, sono state assistite e curate all’interno di famiglie di volontari, all’interno di civili abitazioni.
Si tratta di percorsi con un tempo determinato o possono continuare anche per tanti anni?
I progetti sono individualizzati, a seconda delle esigenze del paziente e della famiglia. Ci sono progetti a breve termine, che a volte possono servire per un periodo di decontestualizzazione da ambienti in crisi; ci sono progetti a medio termine che pongono l’accento su aspetti riabilitativi. Tali percorsi possono durare anche cinque o sei anni, soprattutto in psichiatria, sfociando poi in percorsi di autonomia, sono progetti piuttosto performanti. Poi ci sono progetti a lungo termine, che coinvolgono soprattutto persone non autosufficienti, persone con patologie croniche o persone anziane per le quali non è prevedibile un percorso riabilitativo.
A volte, persone che sono state per lungo tempo rinchiuse in istituzioni, si ritrovano a sperimentare nella loro vita nuovi ruoli, diventando come dei nonni adottivi. Sono fenomeni piuttosto interessanti anche dal punto di vista umano, oltreché sul piano sanitario-assistenziale. Sono stati somministrati dei test rispetto alla qualità di vita percepita dai fruitori del servizio e gli esiti sono assolutamente incoraggianti. Questo perché in tutti i parametri presi in considerazione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla qualità di vita i fruitori di questo servizio giudicano la qualità di vita, superiore rispetto ad altre soluzioni di cura che hanno avuto modo di sperimentare.
E anche da un punto di vista economico è un progetto sostenibile e conveniente?
Assolutamente sì. Ci si rivolge a dei volontari, persone che mettono a disposizione la loro vita, la loro abitazione, le loro relazioni a disposizione dell’altro. Valorizza, a pieno, questa importantissima componente della società che è il volontariato. E poi, il costo globale, visto che si parla di rimborsi spese per le famiglie e di un costo minimo per la gestione del servizio, permette di guardare allo IESA come una soluzione che fa risparmiare fino parecchio rispetto all’inserimento in comunità o altre strutture. Con questo metodo si può arrivare a triplicare il potenziale di cura di una qualsiasi istituzione. Questo tipo di performance è stata ben colta dagli inglesi: oggi ci sono 12.000 utenti in tutto il Regno Unito, numeri altissimi, attraverso il progetto chiamato Shared Lives. E parliamo di una esperienza che si è sviluppata negli ultimi cinque/sei anni. Quindi, in pochissimo tempo, ha avuto un grandissimo sviluppo. Con tagli minimi a livello di soluzioni di cura istituzionali, sono riusciti a triplicare l’offerta di cura alle persone bisognose. Oltre a contenere i costi, aumentano l’efficacia, le prospettive e le possibilità di cura.
E’ un servizio da lei proposto e sviluppato in Italia?
Lo IESA è un’esperienza antichissima che ha settecento anni di storia, nella sua forma primordiale. Ed è ricondotta ad una leggenda che si ambienta nelle Fiandre in Belgio, in una città che vede ancora attivo lo IESA. Chiaramente negli anni c’è stata una evoluzione di questo modello, che ha dato luogo in questi ultimi decenni ad una istituzionalizzazione dello stesso. Per quanto sia un’ottima soluzione, oggi lo IESA in quella cittadina viene gestita dalla clinica psichiatrica. Esattamente il contrario di quello che stiamo facendo noi. Per noi, la possibilità di condividere un’abitazione, uno spazio di vita con un volontario, è un qualcosa che va ben aldilà di una regolamentazione istituzionale, ben aldilà di considerare il posto letto presso la famiglia come un posto letto presso la clinica.
Detto questo, però, è una pratica che ha una tradizione molto antica. Con metodi diversi, ma molto antica. Quello che ho fatto è stato studiarla approfonditamente in Germania e proporla in Italia per un suo sviluppo con tecniche più moderne. Non ho inventato assolutamente nulla, anzi.
Com’è stato e com’è l’inserimento di questo progetto in un percorso istituzionale? E’ stato difficile?
Inizialmente ho incontrato più paure all’interno delle istituzioni di cura che nella popolazione. Arrivando dalla Germania con questa idea in testa e con l’intenzione di svilupparla in Italia, ho trovato parecchie porte chiuse prima di trovare la porta aperta qui all’ASL TO3, grazie ad una visione lungimirante di quelli che erano allora il direttore di dipartimento, il primario e il direttore generale. E tutt’oggi è un qualcosa che viene tenuto in grande considerazione dalla attuale direzione aziendale. E’ frequente, quando si parla di libertà e quando si associa il concetto di libertà ad un percorso di cura, che ci siano delle resistenze e delle paure negli stessi operatori della psichiatria. Attraverso un lavoro puntuale, attento e quotidiano di divulgazione culturale e di dimostrazione di quelle che erano le performance, buona parte di quelle paure è stata superata. Anzi, lo IESA è divenuta una soluzione di eccellenza non solo a livello locale – dove la Regione Piemonte l’ha individuata come pratica da estendere a tutte le ASL del territorio – ma anche a livello nazionale, in quanto si è creato un movimento spontaneo che ha portato alla diffusione del modello anche in altre ASL.
E qual è la maggiore soddisfazione, per lei, in questo percorso?
La maggiore soddisfazione arriva quotidianamente dal sorriso e dal benessere che si riscontra nei fruitori di questo servizio, e anche nelle famiglie. Non nascondo che si punta sempre l’attenzione su quelli che sono gli effetti benefici sull’ospite, su chi è oggetto di cura, ma anche l’erogatore di cura spesso ci testimonia un percorso di trasformazione e cambiamento, un percorso evolutivo, sicuramente molto positivo. Tutto ciò da la forza a me e ai collaboratori di andare avanti e di tenere duro nonostante non ci sia alcuna lobby e nessun tipo di organizzazione profit alle nostre spalle. Si tratta semplicemente di un servizio pubblico che ha l’obiettivo di fornire alla popolazione servizi a costi sostenibili senza mai dimenticare la qualità.
Se una persona o una famiglia volesse ospitare qualcuno cosa dovrebbe fare?
Sul territorio piemontese può chiamare il nostro servizio. Posso lasciare il numero di telefono, 0114017463 per prendere un appuntamento. L’interessato farà un percorso di selezione, un percorso molto strutturato che richiede anche un certo impegno. Non deve essere una cosa che spaventa. Seguirà un percorso di colloqui, di visite domiciliari, formazione, valutazione etc.. che lo porterà ad essere abilitato al ruolo di ospitante per poi procedere agli abbinamenti per le successive convivenze.
E’ difficile trovare famiglie disponibili ad un percorso del genere oppure no?
Non è semplicissimo, anche per questo ci sono delle vere e proprie strategie che negli anni abbiamo costruito, elaborato, codificato. In Germania, con una tradizione più che ventennale in questa pratica, era sufficiente mettere un annuncio sul giornali: “Cercasi famiglie per accogliere paziente psichiatrico” e le famiglie telefonavano. Qui è un po’ più difficile. Ricordo ancora qualche anno fa che qualcuno aveva azzardato a mettere un annuncio sul giornale ed era stato preso di mira dai media in quanto c’era chi trovava bizzarra questa proposta. Quindi, da questo punto di vista siamo ancora un po’ indietro ma, giorno dopo giorno, le cose migliorano, grazie anche al vostro aiuto. Questa intervista è un’opportunità per diffondere questa cultura, con il tempo diventerà sempre meno strano poter accogliere in casa propria una persona in difficoltà, anche perché oggi è lui ma domani potremmo esserci noi ad aver bisogno di aiuto.
Questa reciprocità dovrà essere sempre più presente, anche a livello di mentalità collettiva.
C’è per caso un aneddoto, un’immagine, qualcosa ha voglia di condividere con noi che rappresenta il senso del suo operare quotidiano?
Mi viene in mente improvvisamente una cosa che mi è successa in questi giorni, che a me ha fatto molto piacere. Quando sono arrivato in Italia ho fatto una serie di incontri con i direttori di varie ASL. Con i responsabili della ASL nella quale lavoro da vent’anni, facemmo quest’incontro in un ristorante che era gestito da due signore, due sorelle. Si può dire che lì nacque la storia di questo servizio. Ebbene, poche settimane fa in una azione di sopralluogo che ogni tanto faccio con i miei operatori per vedere come procedono le convivenze, sono finito a vedere una convivenza che era gestita proprio da due sorelle. Questo luogo mi ricordava qualcosa. Venne fuori che prima era un ristorante e così capii che era proprio la locanda in cui facemmo quella cena. Insomma, queste signore, senza saper nulla di ciò di cui parlammo in quella cena, attraverso altri canali sono venute alla conoscenza di questo servizio. Nel frattempo hanno chiuso il ristorante e si sono rese disponibili ad accogliere. Simbolicamente, quel seme messo in quella cena ha dato poi dei frutti senza che noi lo sapessimo. L’ho scoperto recentemente facendo questo sopralluogo. E’ un aneddoto che ci dice qualcosa su questa cultura che si sta piano piano diffondendo.
Solitamente chiudiamo le interviste che facciamo chiedendo a chi incontriamo che cos’è per lui l’Italia Che Cambia. Non tanto il nostro progetto editoriale ma come declina questo termine nella sua vita…
Adesso abbiamo parlato di cambiamento in ambito sanitario, assistenziale e sociale ma chiaramente le potenzialità dell’Italia sono immense e si esprimono in molti campi. Io credo che un’Italia Che Cambia sia una nazione che prende man mano consapevolezza delle sue infinite possibilità e che inizi a metterle a frutto, nelle piccole così come nelle grandi cose.
Proprio come è stato per il progetto IESA.
Per chi vuole approfondire vi ricordiamo il numero di telefono 0114017463 e la pagina Facebook del Servizio IESA dell’ASL TO3 (https://www.facebook.com/ServizioIESAASLTO3).
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