1 Feb 2017

Radici nel cielo: un documentario che racconta l’Italia contadina

Scritto da: Francesco Bevilacqua

Radici nel Cielo è un progetto indipendente e autofinanziato che parte da un lungo viaggio alla scoperta dei contadini italiani e delle tradizioni rurali che portano avanti. Ma è anche una riflessione sull'agrindustria, sui pesticidi, sulla globalizzazione economica. Che effetto hanno sulle nostre tradizioni e sulla nostra cultura?

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Un viaggio alla ricerca dell’Italia contadina, di quei tanti individui che creano una collettività, che portano avanti pensieri e pratiche della stessa natura. È come accendere i riflettori e dare voce a chi non viene ascoltato, ma rappresenta una biodiversità, anche umana, fondamentale per il nostro paese. È il progetto di Radici nel Cielo.

 

Un furgone, 4000 chilometri, 26 tappe, 70 interviste. Tanti giorni sulla strada per incontrare le persone e passare del tempo con loro. «Ci hanno ospitato, con alcuni ci siamo resi utili nel lavoro dei campi, ma abbiamo anche visitato gli studi di docenti, agronomi, ricercatori e medici», racconta Andrea Pierdicca, l’ideatore di questo progetto indipendente e autofinanziato, portato avanti insieme a un collettivo di artisti, tecnici e specialisti nei vari settori. Lo abbiamo sentito e gli abbiamo chiesto di parlarci del percorso intrapreso, ricco di novità.

 

Su cosa state lavorando ora che il viaggio è concluso e il documentario è pronto?

 

Oggi il documentario è disponibile su Vimeo e il costo serve per coprire le spese di produzione. Parallelamente, stiamo lavorando sugli extra: in primavera usciranno i DVD e partiranno la distribuzione e gli eventi pubblici, in attesa del tour teatrale, che prenderà il via ad aprile con il format di letture recitate in musica  dal titolo “Studio agri-culturale”. Per l’autunno dovrebbe essere pronto anche il nuovo spettacolo teatrale di narrazione e musica, ultima fase del progetto “ Viaggio tra terra e cielo”.

 

In passato siamo sempre partiti da un progetto teatrale relativo ad argomenti come ambiente e apicoltura, che ogni volta approdavano anche a un lavoro video. Stavolta abbiamo invertito, partendo dal video e andando verso il teatro. È stato interessante perché anche scrivendo il testo di uno spettacolo teatrale bisogna fare ricerca sul campo ed è come se questa volta avessimo documentato la ricerca stessa.

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L’obiettivo principale del viaggio è stato il confronto e il rapporto con le persone. Non abbiamo approfondito più di tanto gli aspetti tecnici, anche se gli argomenti sarebbero tanti, dalla burocrazia alla scienza. È stato un viaggio per incontrare chi in prima linea lavora la terra in maniera naturale e sana, per riconoscerci in queste persone e creare fra di loro un riconoscimento reciproco. Il messaggio è: non siamo soli! Questo restituisce forza, adesione e senso d’appartenenza.

 

Attraverso il rapporto con la natura siamo andati in cerca di un’umanità “esemplare”, di chi si dedica al lavoro quotidiano, sul campo. Stiamo traducendo tutto questo in un testo drammaturgico, che partendo dalla condizione dell’agricoltore in Italia si rivolgerà alla popolazione rurale mondiale, analizzando anche tutte le sue implicazioni con l’agroindustria, le multinazionali, i governi, l’economia.

 

Qual è il messaggio che arriva dal mondo contadino, che voi rilanciate attraverso il documentario e lo spettacolo?

 

La prima cosa è che è fondamentale occuparsi di loro nel senso di  ascoltarli, dar loro attenzione, non lasciarli soli. Certo, i bisogni son su più piani, ma intanto una cosa importante è che hanno molte cose da dire, una grande padronanza di ciò che fanno e tanta passione. Ciascuno di loro ha una luce negli occhi, tutti sorridono, magari sono stanchi perché lavorano dalla mattina alla sera, però hanno energia e vitalità. Non si lamentano, sono propositivi e raccontano le loro pratiche, il loro stile di vita, la cultura rurale, spiegano perché hanno scelto di stare in campagna. Diventano portatori di passione, preparazione, solidarietà, radicamento nel territorio, fiducia, scambi, valori che nel tempo sono stati – letteralmente! – asfaltati.

 

Dovunque siamo andati abbiamo conosciuto coraggiosi pionieri che lentamente e faticosamente stanno ricostruendo il tessuto sociale in questi territori partendo dal presidio fisico dei luoghi – come Gegè, pastore marchigiano che porta le sue capre nei fossi, oggi quasi scomparsi per via dell’avanzamento dell’agricoltura industriale. Si può notare che dove ci sono loro la geografia è curata, presidiata, ordinata come un tempo. Le comunità si aiutano e fanno progetti condivisi. Siamo all’inizio di un periodo storico in cui si dovrà ricostruire e queste persone trasmettono la voglia di farlo e l’appagamento di lavorare in sinergia con ciò che li circonda, con i tempi della natura.

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Sono capaci di ascoltare i diversi terreni e di capirli, perché bisogna conoscere il suolo e adeguarsi a esso. Non si sognano neanche di chiudersi nel trattore con l’aria condizionata ad arare centinaia di ettari. Loro la terra la toccano, la annusano. Enrico, in Val di Cecina, andava con le mani a scavare nel terreno mostrandoci i vermi che attivano i processi biologici. Giuseppe, che concima naturalmente con lo sterco di vacca, ci ha mostrato la differenza di colore della terra concimata chimicamente, che è bianca, arida, stressata, stanca.

 

Come vedete il futuro della piccola agricoltura contadina?

 

Questo viaggio e il nostro lavoro artistico sono modi per ascoltare i contadini di oggi, andando a toccare ciò che avviene nella realtà. Vogliamo capire quali sono i veri bisogni, cosa si sta facendo realmente e cosa si può e si deve ancora fare. Noi facciamo una sintesi e proponiamo una via possibile da praticare, che è ciò che manca oggi. È come se ci fosse un grande vuoto culturale, si è creata una saturazione e siamo a un punto di crollo perché abbiamo superato il limite.

 

La tecnologia è arrivata a livelli mostruosi, ma l’uomo è regredito. A volte leggo Seneca e mi accorgo che gli antichi erano più evoluti di noi nel pensiero e nella consapevolezza. Ma dove stiamo andando? La nostra volontà è cercare umanità nuove, ma anche antiche, lavorare sulla comunità e sul territorio. Ma non nel senso commerciale: non vogliamo promuovere un prodotto locale, bensì mostrare uno stile di vita quotidiano. Lorenzo, a Osimo, ha fatto la battitura del grano chiamando a raccolta gli amici, per lo più giovani, ed è stata una vera festa, come avveniva un tempo. Sono tentativi di riorganizzare una vita collettiva e solidale.

 

Questa collaborazione agevola molto il lavoro pratico e favorisce la condivisione di mezzi e competenze. Nel territorio si creano maggiore autonomia e indipendenza, si sviluppano le idee di autoproduzione e di piccole comunità che sostengono l’impatto dell’industria. Queste autonomie locali stanno creando modelli di vita alternativi rispetto alla città, dove invece la qualità della vita è sempre più bassa. A questo si può rimediare favorendo l’affluenza delle persone verso i piccoli centri e le campagne, rivitalizzando terreni incolti e abbandonati, ritornando in maniera sana alle radici e alla terra, restituendo vita ai territori.

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In L’uomo che piantava gli alberi Jean Giono immaginava proprio questo: rigenerando terreni fertili si ricreano le condizioni per riportare l’uomo alle sue radici, rifondare comunità e collettività. Si riattiva anche il tessuto economico, artigianale e sociale, si recupera il “saper fare” e nasce la possibilità concreta di rivitalizzare la bellezza dell’Italia, un paese ricchissimo di biodiversità.

 

Questo è l’ideale, la tensione culturale. Ma la vera cultura non è quella accademica o televisiva, bensì – come dice Massimo Angelini – “nell’intimo del suo significato coltura, e così cultura, è cosa far crescere, cosa eleva, cosa onora, cosa è profondamente legato al culto”. Il pensiero deve ritornare a relazionarsi con le cose vere, come suggerisce Latouche bisogna decolonizzarlo. Non è altro che un ritorno a casa, un recupero delle percezioni sensoriali, che in campagna sono fondamentali. Questo porta una vitalità che è l’antidoto alla depressione che sta avvolgendo l’umanità.

 

Cosa può fare lo spettatore per supportare il mondo contadino?

 

Anzitutto gli chiediamo la disponibilità ad ascoltare i vari punti di vista che ci sono oltre al pensiero dominante, aumentando la biodiversità culturale. Quando ha acquisito e analizzato queste informazioni, deve mettersi in gioco, farsi stimolare dal sentimento di appartenenza. E questo scatena una inevitabile reazione.

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È come una semina: noi facciamo un lancio e in alcuni luoghi il seme attecchisce perché il terreno è pronto, la gente consapevole, stanca e in cerca uno stimolo per cambiare. Teatro e video sono stimoli interessanti: si acquisisce l’informazione e poi si agisce. Alcuni cambiano stile di vita, mollano il lavoro, accettano il rischio, altri diventano consapevoli di come l’abitudine li sta divorando, altri si interrogano sul loro modo di mangiare e rifiutano il cibo industriale.

 

I pesticidi si incarnano nel nostro corpo e creano un caos interno che destruttura il nostro organismo, che degenera in malattie. Dobbiamo cominciare a comprare diversamente e utilizzare il nostro potere economico. Saremmo contenti se qualcuno dei nostri spettatori si avvicinasse al mondo dei gruppi d’acquisto, dei mercati contadini, dei piccoli produttori. Mangio diversamente, conosco altre persone, cambio il mio stile di vita e aumento la mia capacità critica nei confronti di ciò che mi viene proposto, che è sempre la soluzione più facile.

 

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