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Creare coalizioni civiche apartitiche per il bene comune e la giustizia sociale con l’obiettivo di dare potere ai cittadini attraverso l’azione intorno a interessi comuni. Il community organizing è un metodo testato nel corso di 75 anni, in oltre 100 città e 5 diversi Paesi del mondo. Per sapere in cosa consiste e quale può essere il suo impatto sulla società, abbiamo intervistato Diego Galli che, dopo aver lavorato come community organizer a Milwaukee, desidera ora portare questo approccio anche in Italia.
Che cos’è il community organizing?
Il community organizing è la politica nel senso più ampio del termine che si riconnette alle persone. “Il cuore è la prima casa della democrazia”, ha scritto la scrittrice ecologista Terry Tempest Williams. Quello che mi ha colpito di questo approccio è l’attenzione enorme dedicata agli aspetti relazionali, alla crescita personale dei cittadini comuni, alle pratiche necessarie e creare e tenere unita una comunità, a dettagli fondamentali come l’insistenza sulla differenza tra relazioni pubbliche e relazioni private. Allo stesso tempo è un approccio di cittadinanza attiva che si confronta in modo molto pratico e ruvido con l’idea del potere.
Barack Obama, che come ha ricordato anche nel suo discorso di addio da presidente ha lavorato per diversi anni come community organizer, ha scritto un saggio alla fine della sua esperienza in cui lo descrive così: “Il community organizing parte dalla premessa che i problemi che devono affrontare le comunità dei quartieri disagiati non sono una conseguenza della mancanza di soluzioni efficaci, ma della mancanza di potere per implementare queste soluzioni”.
Il potere, secondo i community organizer, può essere i due tipi: dominate o relazionale. Si tratta di un’intuizione simile a quella del nostro Danilo Dolci quando sosteneva che il dominio è “la malattia del potere”, mentre “il potere personale o di gruppo valorizza la propria forza vitale in collaborazione con l’altro”. Il community organizing è una pratica che consente di creare ampie e durature coalizioni civiche partendo dall’identificazione e formazione dei leader provenienti dalle istituzioni ancora di un territorio affinché ottengano potere.
Quando e dove nasce l’idea e dove è diffuso oggi?
Più che un’idea, come nella tradizione pragmatica americana, questo approccio nasce da un fare accompagnato dalla riflessione. Un giovane sociologo dell’Università di Chicago, Saul Alinsky, che aveva tra l’altro svolto la sua tesi sulle gang giovanili italiane collegate alla mafia, si trova a lavorare in uno dei quartieri più poveri della città, Back of the Yards, dove erano situati i macelli dei colossi della carne in scatola e dove risiedevano gli operai di questa industria con le loro famiglie. I sindacati non riuscivano a organizzare una popolazione profondamente divisa su linee etniche, dato che era composta in maggioranza da immigrati dell’Europa meridionale e dell’est e da messicani.
Alinsky intuì che per raggiungere gli operai occorreva organizzarli a partire dalle chiese di diverse confessioni religiose e etnie che frequentavano in massa. Creò così il Back of the Yards Neighborhood Council, quello che da noi chiameremmo un comitato di quartiere, ma molto partecipato e politicamente influente. Il coinvolgimento delle parrocchie cattoliche fece sì che nel giugno 1930 il vescovo ausiliario dell’Arcidiocesi di Chicago Bernard J. Sheil prese la parola su un palco accanto al leader sindacale John L. Lewis citando l’enciclica Rerum novarum a favore delle rivendicazioni degli operai. Il giorno dopo una delle quattro industrie della carne, la Armour, riconobbe il sindacato PWOC-CIO e concesse agli operai un incremento salariale. A seguire capitolarono le altre.
Alinsky iniziò a essere chiamato in varie città degli Stati Uniti e alla fine degli anni ’60 scriverà una sorta di manuale dove racchiuse le regole del community organizing sotto il titolo di “Rules for radicals”. Nel frattempo aveva creato l’Industrial Areas Foundation, un istituto di formazione di community organizer, che oggi ha affiliate in circa 60 città degli USA e 5 diversi paesi del mondo. Il community organizing si insegna ad Harvard, è stato utilizzato da vari sindacati per organizzare i lavoratori precari, dal Partito laburista inglese per ricreare i legami con il territori o, e esiste perfino un’organizzazione in Giordania che tenta di diffonderlo nel mondo arabo.
Quali sono le organizzazioni coinvolte?
Il community organizing non approccia gli individui in modo isolato, ma attraverso le loro connessioni sociali con il territorio dove vivono. Non si può creare comunità facendo l’economia dei pochi luoghi sopravvissuti dove le persone continuano a incontrarsi in uno spazio pubblico. Gli organizer chiamano queste organizzazioni “istituzioni” per sottolinearne l’importanza. Sono le istituzioni della società civile. E vengono chiamate anche “istituzioni ancora” perché ancorano gli abitanti al territorio. Si tratta di scuole, chiese delle varie confessioni religiose, sedi locali dei sindacati, centri sportivi, centri anziani.
Lavorano invece con maggiore difficoltà con quelle a cui siamo abituati a pensare quando parliamo di associazioni. Lì infatti si trovano persone che si uniscono perché già sensibili a determinati problemi e perché “pensano allo stesso modo”. I community organizer lavorano invece sulla lenta, difficile, ma essenziale arte di portare a riconoscere interessi comuni, persone e organizzazioni che la pensano diversamente su molte cose. Nel lavorare con queste organizzazioni le trasformano rendendole più relazionali, partecipate, impegnate civicamente e aperte alla collaborazione.
Puoi farci qualche esempio di risultati concreti ottenuti con questo metodo?
Parto, visto il dibattito recente a Roma, dalle Olimpiadi di Londra, quando l’organizzazione di organizing locale, Citizens UK, ottenne dal Comitato olimpico la garanzia di un salario minimo vitale per tutti i lavoratori che lavoravano direttamente per il comitato così come per qualsiasi impresa vincitrice di un appalto. Una vittoria non da poco se si pensa che per Expo a Milano sono stati aggirati i contratti nazionali di lavoro.
Questa vittoria è stata solo l’ultimo capitolo di una decennale campagna per il salario minimo vitale che ha visto un centinaio di città americane approvare ordinanze che obbligavano non solo il comune ma ogni società appaltante di servizi pubblici comunali a pagare un salario minimo determinato per legge. Pensiamo a cosa significherebbe se qualcosa del genere fosse adottata per i tanti assistenti sociali e operatori delle cooperative a cui vengono affidati dai comuni lo svolgimento di servizi sociali importantissimi e delicati.
Un altro lascito delle Olimpiadi grazie ai community organizer è il London Community Land Trust, un innovativo progetto di housing sociale che prevede che gli edifici e i terreni siano dati in proprietà a una fondazione di comunità che ne garantisce per sempre la destinazione ad housing sociale e che i prezzi di affitto e vendita siano fissati rispetto al reddito. Il nuovo sindaco di Londra, Sadiq Khan, pochi giorni prima del voto si è impegnato di fronte a un’assemblea di 6000 leader organizzati da Citizens UK a costruire almeno 5.000 case attraverso progetti di Community Land Trust entro il 2020. Contemporaneamente l’organizzazione di Berlino, DICO, sta lavorando con il sindaco della città su un progetto di housing sociale che dia abitazioni a decine di rifugiati insieme a cittadini tedeschi, uscendo dalla logica della ghettizzazione.
Parlaci della tua esperienza di community organizer. Come è iniziata e cosa è successo dopo?
Ho contattato l’Industrial Areas Foundation dopo un’intervista che ho realizzato con il suo direttore, Michael Gecan. Gli chiesi se era possibile partecipare a uno dei training della fondazione. Lui mi invitò a vedere il loro lavoro in opera a Baltimora, Washington DC e New York. Fu un’esperienza importante sia a livello personale che professionale. Tornai poi per partecipare al training nazionale a Chicago nell’estate del 2013. Poi andai a lavorare a Milwaukee presso Common Ground, l’organizzazione locale, nell’ottobre 2014. Tenni un diario di quell’esperienza attraverso un blog, “Tu vuò fa il community organizer” che recentemente ho ritrovato citato in un libro del professore della Sapienza Giovanni Devastato, “Lavoro sociale e azioni di comunità”.
Puoi raccontarci in breve cosa è successo a Milwaukee ed il significato di questa esperienza?
A Milwaukee ho avuto modo di vedere e partecipare in prima persona a una campagna in pieno stile “IAF” contro il finanziamento pubblico di un nuovo stadio della squadra locale della pallacanestro. All’inizio non capivo l’importanza di questa campagna, che mi appariva marginale. Solo seguendo le riunioni, gli incontri e vedendo le reazioni degli attori politici ne ho capito la portata. La squadra di pallacanestro locale, infatti, i Bucks, era stata acquistata da tre miliardari, Wesley Edens, Marc Lasry e Jamie Dinan, che insieme hanno accumulati 5 miliardi di dollari in ricchezza personale. Hanno chiesto alla città di Milwaukee di finanziare con 500 milioni di dollari la costruzione del nuovo stadio, altrimenti avrebbero spostato la squadra in un’altra città (negli USA si può fare).
Per capire il community organizing bisogna dire che non sono partiti dicendo no, e anche che si sono mossi con grande anticipo rispetto all’operazione. Alle prime voci hanno iniziato una “campagna di ascolto” chiedendo a 5.000 residenti come avrebbero speso 500 milioni di dollari per la città. La maggioranza ha detto per i giovani, e così Common Ground ha lanciato la campagna Fair play (gioco leale): “se fondi pubblici dovranno essere usati per costruire un nuovo stadio, allora almeno 150 milioni di questi fondi devono essere usati per migliorare gli impianti sportivi e gli spazi ricreativi nelle scuole pubbliche di Milwaukee”.
I proprietari dei Bucks non hanno concesso neanche un incontro a Common Ground. A questo punto la campagna è entrata nel vivo. Non hanno fermato i fondi pubblici per la costruzione dello stadio, ma hanno ottenuto uno stanziamento di 80 milioni di dollari per la riqualificazione dei quartieri e degli impianti sportivi delle scuole. Si è trattato di uno scontro tra persone organizzate contro la ricchezza organizzata, su uno dei terreni in cui si realizza la “cattura politica” delle istituzioni da parte di chi detiene il potere economico. L’obiettivo dello scontro era però arrivare a un compromesso, non rovesciare e prendere il potere.
Il community organizing crede fermamente nel processo democratico e lo realizza nelle sue campagne. Un aspetto non marginale in epoca di populismo. L’Industrial Areas Foundation infatti dichiara: “Siamo preparati a discutere, ascoltare, rivedere i nostri punti di vista, e fare compromessi in cambio del rispetto e della volontà di arrivare a un compromesso da parte di chi detiene il potere. Non vogliamo dominare. Non vogliamo essere il tutto. Vogliamo e insisteremo per essere riconosciuti come una parte vitale di esso, capaci quanto gli altri di rappresentarlo”.
In Italia è applicato questo metodo?
In Italia esistono esperienze che hanno lavorato sulla creazione di comunità per dare potere a cittadini marginalizzati. Si pensi al lavoro di Danilo Dolci in Sicilia, a Aldo Capitini, alla scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani. Alcuni richiamano il lavoro di Angela Zucconi in Abruzzo come qualcosa di simile. Le origini del sindacato nelle società di mutuo soccorso e cooperative, così come il movimento dei fasci siciliani potrebbero essere altri esempi di lotte politiche nate dall’organizzazione di comunità.
Tuttavia in Italia non esiste il community organizing, nonostante su invito di Jacques Maritain, Alinsky tentò di aprire una sede italiana dell’Industrial Areas Foundation alla fine degli anni ’50, senza successo. Oggi i tempi mi sembrano maturi. Sto tentando, con l’aiuto dell’Industrial Areas Foundation e di tanti leader di organizzazioni italiane interessati e desiderosi di sperimentare, di avviare la prima organizzazione di community organizing in Italia. Chiunque volesse contattarmi può farlo tramite il sito di questo progetto.
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