Un Asilo nel bosco? Il punto di vista di un pedagogista
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Perchè aprire un asilo nel bosco?
Fabrizio Bertolino, laureato in Scienze Naturali e approdato alla pedagogia con un percorso non lineare, fino a divenire ricercatore in pedagogia Generale e Sociali presso l’Università della Valle d’Aosta e formatore degli educatori di domani, è stato uno dei relatori della giornata di presentazione del Progetto Asilo nel Bosco del Casentino.
Il suo punto di vista è quindi quello di un pedagogista che è anche laureato in scienze naturali e come tale ha cercato di individuare alcuni scenari critici che riguardano i bambini di oggi e di questa piccola porzione di mondo di cui siamo parte. I sei scenari che ha illustrato si portano dietro un bisogno che diventa una responsabilità per chi ha potere decisionale e che in un asilo nel bosco possono trovare una sorta di compensazione.
La solitudine del bambino
Oggi il numero medio di figli per famiglia è 1,2 (nel 1881 ad esempio era 6) ed è cambiato il tipo di società e il rapporto bimbi/over 65. Oggi ogni 100 bambini ci sono 131 persone oltre i 65 anni. Si nasce di meno e si vive di più.
Cosa fanno questi bambini che spesso sono figli unici? Vanno a vivere in situazioni che non tendono a favorire le relazioni. In case, appartamenti, con pochi spazi di condivisione come potevano invece avere le cascine dell”800. Vivere in una casa così significa che c’è un “dentro” che ci contiene e esclude il “fuori” e chi c’è lì. Il chiuso non permette di fare tutto, all’interno alcune cose non si possono fare. È una vita da “cittadini” anche se, come in Casentino, si è circondati da un ambiente naturale ricco e bello.
Il bisogno da provare a soddisfare è quindi la socializzazione tra pari in un ambiente esterno. Che non significa solo andare fuori, stare all’aperto. Significa ridiscutere che cosa può essere l’andare fuori, ha a che fare con la qualità dell’esperienza. In questo l’asilo nel bosco può essere funzionale a risolvere il bisogno.
Iperprotezione
Se ci sono pochi bimbi, su di essi si concentra l’attenzione di tanti adulti e questa attenzione tende a creare adulti e genitori iperprottetivi. Genitori che tendono ad anticipare qualsiasi difficoltà, frustrazione, prima che il bambino la incontri. I “genitori spazzaneve” come li definiscono gli anglossassoni. O “genitori elicottero”: sempre “vicini e sopra”, controllanti e pronti all’intervento anche quando non ce n’è bisogno. In Australia è stata coniata la definizione “Bubble Wrap Generation”: “Generazione Mille Bolle”. Un’immagine evocativa che vede il bimbo avvolto come un pacco fragile per essere tenuto al riparo da ogni pericolo.
L’opinione pubblica è oggi socialmente e culturalmente predisposta a lasciarsi prendere dall’apprensione, dall’ansia, dai timori. La differenza tra rischi reali e rischi percepiti è sbilanciata anche per il ruolo di amplificazione giocato dai mass media.
Tutto questo porta ad una inaccettabilità del rischio.
Il bisogno che questo scenario critico porta con sé, è quello di recuperare una dimensione del rischio come opportunità educativa. Un elemento su cui si può lavorare con chi ha il ruolo di educatore è quindi far vivere queste esperienze di rischio.
Su questo Fabrizio porta un esempio semplice per comprendere meglio. “prendiamo ad esempio la bicicletta. È rischiosa: si può cadere, essere investiti etc. Come adulto posso decidere di non far mai vedere al bambino una bicicletta o di fargli vedere solo la cyclette. Così ho eliminato il rischio. La domanda è: ci ho guadagnato? Saper andare in bici è una cosa che mi rende più capace di sopravvivere o più incapace? Andare in bici significa diventare un guidatore attento con un rischio minimo rispetto ad esempio ad una moto. Con questa esperienza come bambino, affino equilibrio, capacità di comprendere il rischio esterno, comprendo il significato della velocità e altro ancora, in un contesto ancora abbastanza protetto. E che mi aiuta ad essere più preparato per esperienze future. Come educatore posso creare ambienti adatti. In Nord Europa sono diffuse bici senza pedali, con il seggiolino basso che si possono spingere con i piedi. In questo modo il bambino impara la relazione tra velocità ed equilibrio, tra caratteristiche del terreno e velocità della bicicletta. Questa è un’esperienza significativa. Il rischio lo gestisce chi educa.”
Quindi il bisogno (e la responsabilità per l’educatore) cresce: c’è bisogno di far vivere esperienze al”aria aperta e un po’ rischiose per essere significative.
Su questo c’è molto dibattito e riflessione in Italia oggi (basti vedere i tanti seminari a riguardo), in una sinergia che unisce pedagosisti, educatori, pediatri, giuristi, amministratori e genitori ed è un segnale positivo.
L’autonomia perduta
Ai bambini viene sempre più tolta autonomia su vari piani. Quello più evidente è nel “muoversi”, negli spostamenti che portano ad individuare percorsi “sicuri” o ad adattarli in maniera estrema.
Anche nell’organizzazione dei tempi c’è una perdita di autonomia con agende sempre più fitte dove non ci sono spazi che il bambino possa scegliere e gestire. Così come nell’organizzazione degli spazi. Anche parchi più belli sono spesso pensati con la logica adulta del tenere sott’occhio e comunque sono spazi progettati che hanno già dentro sè predisposto che cosa dovrà succedere. Lo spazio contiene nella sua organizzazione anche il sistema di regole con cui starci dentro.
L’organizzazione dei giochi, sia riguardo ai materiali che alla tipologia, vede rosicchiare autonomia ai bambini. Ci sono materiali e giochi che lasciano spazio a autonomia e creatività ed altri no.
Il bisogno che sta dietro a questa perdita di autonomia è un “credito di fiducia” da dare ai bambini. Dargli la possibilità di scegliere qualcosa.
Quindi potremmo aggiungere che l’obiettivo educativo si amplia: “far vivere esperienze all’aria aperta un po’ rischiose, con spazio alla scelta e alla creatività”.
Una vita virtuale
Televisione, videogiochi, computer, cellulari, Ipad, Ipod. La dimensione virtuale e tecnologica è sempre più invasiva nella nostra vita e per i bambini arriva in età sempre più precoce, abbondante e accattivante. Il pericolo è quello di uno sbilanciamento tra esperienze virtuali, mediate, ed esperienze reali, dirette che sono fondamentali per la crescita e formazione.
Il bisogno che sottende questa criticità è: “vivere esperienze dirette e autentiche”.
Quindi potremmo dire che la risposta educativa si trasforma in :”far vivere esperienze (reali e autentiche) all’aria aperta un po’ rischiose, con spazio alla scelta e alla creatività.”
C’è una parola che sintetizza tutto questo: “Avventura”.
“Vivere un‘avventura fuori dall’ordinario (usare il rastrello, sporcarsi, tuffarsi nel fieno, …) è divertente perché ci possono essere diverse incognite ed alcuni rischi -spiega Fabrizio- Nello stesso tempo affrontare ciò che noi adulti apprensivi viviamo per lo più come pericoli rappresenta la miglior garanzia di sicurezza: i bambini intuiscono che la loro incolumità è legata necessariamente alla loro attenzione e prudenza e dunque mettono in atto i loro meccanismi di difesa spesso atrofizzati dal vivere in un ambiente artificiale dove tutto apparentemente è innocuo in quanto costruito e confezionato. Affrontare il rischio significa dunque acquisire capacità di giudizio e quindi autonomia.”
Allontanamento dalle proprie radici
Biologiche, culturali, evolutive, ecologiche. Si è perso il contatto con la natura selvatica, spontanea (il bosco, l’animale) e forse in modo ancora più forte con la natura coltivata (il campo, l’animale allevato). Anche nelle zone rurali sono pochi quelli che sperimentano veramente quel contesto di vita e di lavoro. E poi c’è l’allontamento dagli “altri come noi”, dalla natura umana.
Questo dovrebbe preoccuparci perché si perdono dei saperi essenziali alla vita, non solo in senso generale ma significativi a seconda del contesto in cui si vive. Dovrebbe preoccuparci anche perché sempre più si parla di disturbi da “deficit di natura”. Espressione introdotta da Richard Louv, per indicare i costi, in termini di malessere psicologico e fisico, dell’alienazione dall’ambiente naturale che interessa le nuove generazioni. Non si tratta di un termine medico, di una diagnosi clinica, ma dell’identificazione di una situazione che seppur in via di continua ridefinizione appare sempre più chiara ed evidente a genitori, educatori, pediatri. Un’alienazione che Louv, basandosi sull’analisi di numerose ricerche, evidenzia essere connessa con disturbi sia sul piano fisico e motorio, quali obesità, asma, allergie, miopia, sia su quello emotivo psicologico, con effetti visibili quali piccole fobie, stati di insicurezza, iperattività, incapacità di concentrazione. (vedi intervento della Pediatra Dott.ssa Cecilia Gandolfo)
Un altro aspetto di questo tema è la perdita di consapevolezza, di identità ecologica. Non si riesce più a capire quanto siamo collegati, dipendenti, parte dalla natura. Significa non essere più capaci di comportarsi sapendo che l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge se stesso.
Altri aspetti più delicati sono il non saper più cogliere la bellezza e la perdita di sensibilità e responsabilità verso gli altri. Essere lontani dalla natura, dal “vivente”, attenua la nostra capacità e sensibilità verso altri viventi.
C’é quindi bisogno di riconnettersi con la natura.
Irrigidimento e impoverimento delle pratiche educative
Abbiamo bisogno, e si sta facendo già tanto adesso, di ragionare se un contesto come l’aula, anche negli arredamenti, nella progettazione che ci sta dietro e nelle strategie didattiche favorisca o meno l’unicità del bambino.
C’è bisogno di un ripensamento strutturale finalizzato alla costruzione di contesti educativi dove far vivere avventure in e di natura. Avventura e natura dovrebbero fondersi. L’esistente, la Scuola si sta già mettendo in gioco su questo.
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