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All’Albo Pretorio del Comune di Napoli è stata pubblicata una Deliberazione di Giunta che riconosce sette immobili di proprietà comunale occupati da cittadini e associazioni come “beni comuni emergenti e percepiti dalla cittadinanza quali ambienti di sviluppo civico”. Si tratta di immobili pubblici che da anni si trovavano in stato di abbandono e forte degrado e che i residenti hanno trasformato da luoghi inagibili e fatiscenti in luoghi “capaci di creare capitale sociale e relazionale in termini di usi collettivi con valore di beni comuni”.
I beni immobili/parti di immobili individuati dalla Delibera sono molto diversi fra loro per origine ed evoluzione storica, ma sono accomunati dal fatto che i napoletani, stanchi di aspettare i tempi della burocrazia e preoccupati di possibili speculazioni privatistiche, hanno deciso agire in prima persona: li hanno ripuliti e ristrutturati a proprie spese e, al tempo stesso, hanno avviato percorsi di partecipazione democratica per sviluppare progetti di recupero concreti e condivisi da sottoporre all’Amministrazione comunale.
Si va dall’ex Convento delle Teresiane, che dal 2012 è sede di un gruppo di associazioni del rione Materdei, all’ex Lido Pola uno stabile che il Comune di Napoli sta terminando di acquisire dal demanio e che è occupato dal 2013 dal collettivo Bancarotta 2.0; da Villa Medusa, dal 2013 è sede delle associazioni del Quartiere Bagnoli, all’ex Monastero di Sant’Eframo Nuovo – ex OPG/Ospedale Psichiatrico Giudiziario che, invece, è occupato dall’anno scorso da un gruppo di cittadini e famiglie riunite sotto il nome “Je so’ pazzo”. E poi ci sono l’ex Convento delle Cappuccinelle – ex Carcere Minorile Filangieri, occupato da circa un anno dal laboratorio di mutuo soccorso “Scugnizzo Liberato”, l’ex Conservatorio Santa Maria della Fede occupato dal 2014 da “Santa Fede Liberata” – una comunità di associazioni, comitati e residenti del centro storico di Napoli – e, infine, l’ex Scuola Shipa, che dal 2011 è abitata e autogestita da un gruppo di cittadini e famiglie senzatetto.
La Deliberazione di Giunta n. 446/2016, che ha come oggetto “l’individuazione di spazi di rilevanza civica ascrivibili al novero dei beni comuni“, è datata 1 giugno 2016 ma è stata resa pubblica solo ora, cioè ad elezioni amministrative concluse. Subito dopo la pubblicazione, la Giunta partenopea è stata duramente criticata da alcuni membri del Consiglio Comunale secondo i quali sarebbe di gran lunga preferibile mettere in vendita o a reddito il patrimonio immobiliare civico per risanare le casse municipali. La Giunta è stata anche accusata di aver “legalizzato” le occupazioni abusive di edifici pubblici e di aver fatto un “regalo” ai centri sociali della città.
La Delibera 446/2016 non prevede contratti di locazione con le realtà occupanti, ma solo il riconoscimento del loro “uso civico” – cioè il diritto di godimento collettivo che hanno i membri di una determinata comunità su beni immobili di proprietà pubblica – e non chiarisce chi dovrà sostenere i costi di pulizia, utenze e manutenzione ordinaria e straordinaria di questi sette edifici – cioè se sarà la municipalità, gli occupanti o entrambi. Anche la Ragioneria Generale del Comune di Napoli, pur essendosi espressa in modo favorevole, nel suo “Parere di regolarità contabile” osserva che “l’affidamento temporaneo della gestione di un bene del patrimonio comunale individuato come “bene comune” dovrà rispondere ai principi di buon andamento, imparzialità, economicità di gestione, efficienza e razionalizzazione delle risorse, in considerazione dell’interesse pubblico e della funzione del bene comune” e che “la particolare situazione del Comune di Napoli richiede particolare prudenza e rigore nell’uso e nella razionalizzazione complessiva dei beni patrimoniali”.
Le critiche alla Giunta partenopea derivano dal fatto che ad un fabbricato del complesso di San Gregorio Armeno – ex Asilo Filangieri – che si trova in pieno centro storico ed è occupato dal 2012 da una comunità autogestita di “lavoratori e lavoratrici dell’arte, della cultura e dello spettacolo” – è stato concesso l’uso civico attraverso una serie di Deliberazioni sui beni comuni che vanno dal 2012 all’inizio del 2016. In questo caso, l’esperienza dell’ex Asilo è stata riconosciuta come “spazio destinato alle espressioni culturali, affermando l’obiettivo della cultura quale bene comune da realizzarsi in maniera condivisa e partecipata” ed è stata inserita tra i “luoghi di cultura destinati alla fruizione collettiva e all’iniziativa civica“.
La proprietà e gli oneri di gestione e manutenzione restano in capo al Comune, nei limiti delle risorse disponibili, mentre la comunità dell’ex Asilo si è impegnata a mantenere il luogo decoroso e aperto al pubblico, a realizzare attività autofinanziate e documentate, ad instaurare un rapporto rispettoso e corretto con i residenti, a curare le aree verdi e seminare l’incolto, a conseguire risparmio e razionalizzazione energetica e produzione minima di rifiuti. “Facciamo un po’ di chiarezza: sono tutti spazi che in questi anni sono stati restituiti alla città, per proteggerli dall’incuria e dal pericolo della svendita”, ha dichiarato la comunità dell’Ex Asilo. “La riappropriazione diretta e pubblica è l’esatto contrario dell’assegnazione, spesso privatistica e predatoria. Dunque nessun regalo, come qualche giornalista ha insinuato”.
Anche le realtà che hanno occupato i sette immobili divenuti “beni comuni” non vogliono sentir parlare di “regali” e, insieme all’Ex Asilo, hanno pubblicato un comunicato stampa congiunto in cui precisano che questi immobili occupati “non sono assegnati con la Delibera n. 446/2016, ma (soltanto) riconosciuti come spazi che per loro stessa vocazione – collocazione territoriale, storia, caratteristiche fisiche – sono divenuti di uso civico e collettivo per il loro valore di beni comuni. Questa Delibera riconosce che la necessità di beni comuni è già praticata dalle comunità di abitanti, che hanno generato esperienze di socialità nuova e di auto-recupero in spazi altrimenti abbandonati all’incuria ultradecennale e privi di progettualità. Questi spazi sono stati riaperti alla vita quotidiana per restituirli alla città e per proteggerli dal pericolo della svendita. L’uso civico e collettivo urbano, originato con la sperimentazione dell’(ex) Asilo Filangieri, non è uso esclusivo (ma) è altro dalla proprietà e dagli affidamenti a soggetti”.
“Non si nutre una contrarietà ideologica al sistema delle concessioni, ma per definire un bene comune c’è bisogno di una gestione partecipata, originale e collettiva, poiché dietro il sistema degli affidamenti si può nascondere uno strumento clientelare per gestire privatisticamente i beni della collettività. In una città come Napoli, con beni monumentali che hanno bisogno di impegni economici ingenti per una seria cura e restauro, non vogliamo che diventino vetrine di sponsorizzazioni a fini commerciali o abbiano costi di manutenzione talmente alti da poter essere assunti solo da parte del privato sociale più ricco, quello che spesso – come ci insegna il triste caso di Mafia capitale – non vuole far altro che lucrare sui bisogni dei disperati. Nessun regalo, dunque”, conclude il comunicato congiunto, “innanzitutto perché non riconosciamo in nessun amministratore il proprietario di questi beni, ma (soltanto) soggetti che ne hanno una responsabilità pro tempore. E per questo anche le/gli abitanti di questi beni comuni non si sentono, né ora né mai, i loro proprietari. Noi partecipiamo attivamente alla loro gestione e sperimentiamo altri modelli culturali, politici, economici e relazionali. Il riconoscimento della Delibera 446 è, innanzitutto, un riconoscimento a questa mole impressionante di attività donate senza alcun tornaconto, interesse, scambio di nessun tipo, a tutta la cittadinanza”.
E’ importante ricordare che il Comune di Napoli è stato il primo comune italiano ad aver istituito un “Assessorato ai beni comuni” e ad aver modificato lo Statuto comunale inserendo i “beni comuni” tra gli interessi da tutelare e riconoscere, in quanto funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona. L’Amministrazione partenopea definisce i beni comuni come beni materiali e immateriali di appartenenza collettiva che sono sottratti alla logica dell’uso esclusivo e caratterizzati da una gestione condivisa e partecipata, e si impegna a garantire la fruizione collettiva dei beni comuni e la loro preservazione a vantaggio delle generazioni future, attraverso un governo pubblico partecipato che ne consenta un utilizzo equo e solidale. Per questo ha creato anche un “Osservatorio cittadino permanente sui beni comuni” della città di Napoli che ha funzioni di studio, analisi, proposta e controllo sulla tutela e gestione dei beni comuni, ed è composto da undici membri aventi comprovate competenze in campo giuridico, economico, sociale e ambientale (sette nominati dal Sindaco e quattro dai cittadini attraverso semplici procedure online, n.d.a.).
“Il primo provvedimento in materia è del 2011 e modifica lo Statuto Comunale con l’introduzione della categoria di bene comune”, ha spiegato Carmine Piscopo, Assessore ai beni comuni, al diritto alla città, alle politiche urbane e al paesaggio del Comune di Napoli. “Con la Delibera di giugno i beni del patrimonio storico artistico che hanno conservato il loro carattere monumentale, vengono preservati perché costituiscono reddito sociale per le prossime generazioni. Attiveremo un processo di ascolto e monitoraggio del territorio per sviluppare gli usi collettivi in forma aperta. Si conferma la volontà da parte del Comune di incentivare la costruzione di spazi diversi dai circuiti tradizionali, di accompagnamento di una sperimentazione aperta, inclusiva. Viene ribadita”, ha dichiarato l’Assessore, “la volontà della Giunta di riconoscere la redditività civica, il valore economico delle produzioni culturali generate dai processi di autogoverno, capaci anche di promuovere aggregazione, strutturazione e crescita dei componenti della filiera artistico-culturale, ma anche di contribuire al progresso e alla coesione sociale del quartiere e della città. E’ un ulteriore passo del Cammino dei beni comuni con il quale la Giunta Comunale, al termine di un’azione ricognitiva, rileva spazi che sono stati capaci di generare capitale sociale, manifestatisi come fattori di aggregazione, capaci di promuovere comportamenti di cittadinanza attiva, generatori di sistemi di autogoverno ed autoregolazione ispirati alla libertà di accesso e di partecipazione e comunque al sistema di valori sanciti e tutelati dalla Costituzione della Repubblica Italiana”.
La Delibera 446/2016 è importante perché riconosce il valore sociale delle esperienze che vivono gli spazi occupati e non solamente il valore economico degli immobili e perché stabilisce che “la ricognizione effettuata non riveste il carattere di esaustività, ma si inquadra in un processo di costante ascolto attivo e monitoraggio del territorio e delle sue istanze in funzione della rilevazione di spazi (ascrivibili al novero dei beni comuni) capaci di creare capitale sociale e relazionale in termini di usi collettivi con valore di beni comuni”. Per quanto riguarda le forme di gestione e di regolamentazione dei sette immobili occupati, sono già stati attivati tavoli di lavoro pubblici dove i cittadini sono investiti di potere co-decisionale insieme all’Amministrazione. Non ci sono forme di gestione precostituite o standardizzate, anzi è probabile che saranno tutte diverse tra loro, perché gli spazi sono diversi tra loro per destinazione d’uso e forme di occupazione. Col comune denominatore di mantenere gli spazi vivi e aperti, attraverso attività documentate che non saranno solo artistiche e culturali, ma anche di rilevanza sociale come centri di ascolto per donne e minori, ambulatori di medicina popolare, sportelli per disoccupati e precari.
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