28 Lug 2016

Piattaforme, cooperative e beni comuni digitali

Scritto da: Ezio Manzini

Pubblichiamo un altro estratto dall'ebook “Relazioni Saperi Futuro” in cui Ezio Manzini riflette su opportunità e limiti delle piattaforme digitali e sulla rete come bene comune e strumento per una nuova e più partecipata democrazia.

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Ricordo che nel 2009, avendo dato agli studenti del corso di design dei servizi al politecnico di Milano il compito di studiare servizi collaborativi che utilizzassero Zoes come piattaforma, ho dovuto spesso confrontarmi con questa loro domanda: perché, per organizzare questi servizi, e le conversazioni e gli incontri su cui si basano, dovremmo usare uno strumento dedicato, locale, che nessuno conosce, come Zoes, quando è tanto facile usare Facebook o Meetup che tutti conoscono e sanno già usare?

 

Gli studenti ponevano una domanda ragionevole. In effetti, è poi successo che Facebook e Meetup, e poi altri colossi come Airbnb e Uber, proprio perché sono noti a tutti e sono così ben progettati da diventare assai facili da usare, si sono imposti, sbaragliando la concorrenza. E proprio qui sta il primo grande problema. Quello che allora né gli studenti né io ancora sapevamo era che, nelle reti, se non vengono immessi degli appropriati anticorpi (di cui parlerò più avanti), vale la legge del Winner-take-all.

 

È questa una proprietà perversa delle reti, per cui chi fa qualcosa un po’ meglio degli altri può arrivare facilmente e rapidamente a dominare il mercato a livello globale. Una “proprietà perversa” perché, come stiamo vedendo, genera mostri: monopoli planetari di dimensioni 17 così enormi da apparire a-umane. Ma non solo. Allora non vedevamo ancora chiaramente un secondo grande problema delle piattaforme digitali, globali e private che stavano emergendo: chi le usa basando su di esse la propria sopravvivenza economica, ne diviene del tutto dipendente, nel senso che la sua esistenza è totalmente alla mercé di chi possiede la piattaforma.

 

group of people talking in social network

 

Il fenomeno, che si chiama spesso uberizzazione e che corrisponde ad una iper-precarizzazione della vita delle persone che vi dipendono, riporta il lavoro alla forma del bracciantato: i nuovi lavoratori dell’economia delle piattaforme sono dei braccianti digitali che vendono micro-prestazioni a chi le richiede e quando e come le richiede, senza nessuna continuità e garanzia per il futuro.

 

Di fronte a questa trappola in cui rischiano di cadere tutte le speranze riposte nella rete come bene comune e come strumento per una nuova e più partecipata democrazia, sta nascendo un diverso modo di vedere le cose. Per esso, il problema non sono le piattaforme digitali e le nuove organizzazioni disintermediate che esse possono generare. Il problema è il monopolio nei campi di attività in cui esse si applicano e la mancanza di diritti di chi basa su queste il proprio lavoro. Quindi, adottando quest’approccio, ciò che occorre fare è immaginare e realizzare piattaforme locali, interconnesse tra loro, di proprietà di chi le usa.

 

 

Questo modo di pensare ha partorito dunque la proposta di aggiornare la vecchia idea di cooperativa: di costruire cioè nuove forme di cooperativa basate sulle piattaforme. O viceversa: di produrre piattaforme di proprietà delle cooperative tra quelle che le usano. 18 insomma, si scopre che affinché la rete resti il bene comune di cui si è tanto parlato, occorre che succedano due cose che non sono ancora successe, ma che potrebbero/dovrebbero succedere. Prima di tutto, occorre che l’ente pubblico ponga delle regole del gioco chiare contro lo strapotere dei monopoli digitali.

 

 

Delle regole che diano dei limiti al loro modo di operare e che, in particolare, obblighino a un certo grado di localizzazione delle proposte e permettano la creazione di un adeguato numero di spazi pubblici digitali. Inoltre, e questo non è il pubblico che può farlo, occorre che proliferi una nuova generazione di cooperative: le cooperative digitali di cui si è detto. non a caso, nella discussione sulla sharing economy che tanto spazio ha avuto negli ultimi anni, c’è chi dice che dallo slogan iniziale, “Sharing is the New Owning” occorra passare a quello che dice: Owning is the New Sharing, con riferimento appunto a questa nuova idea di piattaforme locali, di proprietà di chi le usa.

 

Zoes, certamente, avrebbe potuto essere una di queste piattaforme locali che, come dei piccoli Davide, dovrebbero combattere, nel nome della rete come bene comune, i Golia delle piattaforme-mostro globali. Ma Zoes finisce oggi mentre queste discussioni sono ancora in corso. Forse, viste così le cose, Zoes è nata e finisce troppo presto.

 

(Continua a leggere: scarica gratuitamente l’ebook “Relazioni Saperi Futuro”)

 

 

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