“Vado in Africa a portare un sogno”: una squadra di calcio per dare speranza ai ragazzi
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Ho contattato telefonicamente Gian Marco qualche giorno fa. Sono rimasto sorpreso e incuriosito del suo progetto chiamato HopeBall. Quel che più mi ha colpito è la determinazione e la passione con le quali si impegna giornalmente nella realizzazione del suo sogno. Quando poi ho scoperto la sua età, 21 anni, mi ha ancor più emozionato. Vi starete chiedendo, quindi, di cosa stiamo parlando. Bene, facciamocelo raccontare direttamente da lui.
Che cos’è Hopeball?
Hopeball è un progetto educativo incentrato sullo sport. Si pone come obiettivo quello di trasmettere valori educativi facendo vivere ai ragazzi un’esperienza sportiva. Non ha pretese di professionismo sportivo, ma ritiene fondamentali i valori dello sport quali il lavoro di gruppo, il rispetto, il confronto. L’intento è quello di far vivere esperienze a ragazzi che nelle aree più povere del pianeta non hanno la possibilità di accedere all’istruzione.
La Zambia è stata la prima realtà in cui HopeBall ha preso vita: una squadra – fondata da Gian Marco – che raccoglie ragazzi per lo più orfani, in difficoltà economiche, familiari o costretti a lavorare già dall’adolescenza e che non hanno avuto la possibilità di accedere o completare gli studi.
Questi ragazzi, generalmente, vivono senza obiettivi e senza aspirazioni, vivono alla giornata. Lo sport li stravolge in questo senso perché li costringe a porsi degli obiettivi: la partita, il campionato, il lavoro in gruppo, stringendo dei rapporti tra i compagni. In questo senso lo sport li aiuta a crescere.
Come è nata questa idea?
Nasce dalla mia passione per lo sport. Ho praticato sport fin da quando ero bambino, in particolare facevo sci di fondo a livello agonistico. E lo sci di fondo mi ha trasmesso tantissima passione. Gli sport individuali ti costringono a lavorare molto su te stesso.
Ogni volta che andavo a sciare o andavo ad allenarmi si rivelava una costante sfida con me stesso, e tutto ciò mi ha aiutato a crescere.
Adesso ho 21 anni e due anni fa ho dovuto smettere per un infortunio molto grave. Dover lasciar lo sport, per uno come me, a 19 anni è stata una sofferenza molto intensa. Come ti dico sempre, lo sport da una lezione. Anche il calcio, ad esempio, insegna sempre a non mollare mai, lottando sempre fino all’ultimo. Così non mi sono arreso ed ho cercato di capire in quale modalità potessi ancora dare qualcosa allo sport e come lo sport potesse, in qualche modo, darmi qualcosa.
Ho voluto scegliere di trasmettere questa mia passione per lo sport a chi ne avesse più bisogno, e quindi a ragazzi che non hanno la possibilità di vivere lo sport come un passatempo. Per molti di loro infatti non è un passatempo: diventa l’unica distrazione alla sofferenza che vivono nella loro realtà. E quindi ho pensato che potesse essere utile per loro poter vivere una esperienza sportiva.
Qual è l’insegnamento più forte che questa esperienza ti sta dando?
Sono tante conferme. La conferma più grande è che esiste uno sport solidale e sociale.
Io sono appassionato di calcio, super tifoso.
Negli ultimi anni ho vissuto un allontanamento per via di questo calcio dei milioni, tutto legato ai soldi. Quel che ho imparato è che non è così. Perché lo sport è ancora in grado di trasmettere valori. Vedere in Zambia un ragazzo giocare senza una gamba, aldilà dell’impatto emotivo che su di me ha avuto, mi ha fatto riflettere e mi ha insegnato come lo sport sia veramente qualcosa di magnifico e che noi stiamo dimenticando.
La lezione è che noi, come persone agiate da un punto di vista economico e che viviamo in una società in cui abbiamo tutto a portata di mano, ci stiamo dimenticando i valori.
Il vero valore dello sport è quello di permettere ad un ragazzo senza gamba di essere uguale agli altri: in campo si è tutti uguali. Quindi la lezione è che lo sport deve essere un momento di socialità e di uguaglianza.
Ciò mi ricorda, mi conferma e mi da il dovere di dire che lo sport abbatte i confini, abbatte le frontiere.Viviamo in un Europa che vive nel timore, viviamo in un’Italia con ancora realtà xenofobe, anche in contesti sportivi. E’ una battaglia che dobbiamo combattere, per far tornare lo sport ad essere quel che è: un momento di socialità fra tutti gli esseri umani.
Questa è la più grande lezione che ho avuto che mi sento in dovere di portare, lo sport deve essere strumento di coesione sociale.
C’è stato un momento difficile nella realizzazione di questo sogno?
Ce ne sono diversi. Non è stato un cammino facile, il momento più difficile penso sia stato il mio approccio con una realtà come l’Africa, la conoscevo solo da libri e articoli che leggevo per mio interesse personale.
Lavoravo in ospedale, maggiormente con i bambini piccoli. La difficoltà era nell’essere e mantenersi positivi, continuare a trasmettere un’immagine positiva pur essendo circondato da situazioni che ti spingevano ad abbatterti.
Il modo in cui ho superato tutto ciò è stato attraverso la coscienza e la personalità come educatore. Se volevo trasmettere un valore positivo, come la felicità e la gioia e l’aspetto ludico del gioco del calcio, dovevo farlo essendo io in primis felice. Non si può esportare la pace facendo la guerra, e così non si può trasmettere la felicità piangendo.
Prima vivevo a Londra. Mi sono catapultato in una realtà così diversa nella quale la sfida più difficile è stata quella di essere sempre felice davanti ai bambini.
Qual è ora il prossimo step del progetto?
Innanzitutto va chiarito che il mio primo obiettivo quando sono arrivato in Zambia era fare in modo che il progetto Hopeball non fosse legato a me come persona; la prima cosa che ho fatto e che ho mantenuto per tutti i mesi in cui sono stato lì è stata quella di formare un allenatore.
Gli obiettivi ora sono due. A breve termine ripartirò per il Kenya dove una Onlus mi ha chiesto di portare anche nella loro comunità questo progetto sportivo, permettendo così ad altri ragazzi di vivere questa esperienza.
La seconda, invece, sarà quella di tornare in Zambia. La volontà è di tornare con delle novità: ho promesso ai ragazzi di portare le divise per la squadra. Questi mesi in Italia li sto incentrando nel cercare sostenitori nella raccolta di materiale – pantaloni, scarpette, pantaloncini – con la speranza di trovare società di calcio interessate a “sponsorizzarmi” in modo da dare alla squadra la possibilità di partecipare al campionato con delle divise reali.
Adesso abbiamo delle semplici magliette bianche con i numeri scritti con il pennarello. Bisogna sapere che i ragazzi ci tengono molto a imitare il nostro calcio, sebbene giochino a piedi nudi nei campi di patate. Tutto ciò gli permetterebbe di sognare un po’ di più, e non c’è proprio niente di male in tutto ciò.
Quindi questi sono i due obiettivi: la raccolta di materiale e il nuovo progetto che partirà a settembre in Kenya.
Il bello del progetto è che essendo sullo sport – un valore universale – può essere applicato ovunque, anche in Italia.
Infine, qual è il tuo sogno per il futuro?
Pensare al futuro per me è difficile, in quanto può succedere di tutto.
La cosa che mi pongo di fare a lungo termine è la creazione di una realtà che sappia promuovere i ragazzi più giovani dal punto di vista sportivo. In Zambia non c’è assolutamente interesse nei ragazzi più giovani. Non esistono settori giovanili, non esistono vivai. Alla domanda: ci sono talenti e fenomeni in quei territori? Io rispondo sempre no. Perché sono tutti talenti in potenza, sono sprecati in quanto nessuno li ha mai seguiti.
Il mio sogno, dunque, è quello di realizzare una struttura che permetta ai bambini più piccoli di essere seguiti dal punto di vista sportivo e dargli così la possibilità un domani di divenire dei veri e propri campioni attraverso la generazione di un settore giovanile, concentrandosi sempre sui ragazzi più bisognosi.
In Italia il sogno è quello di sconfiggere tutti i pregiudizi, di arrivare a vivere lo sport in modo pulito, passionale, privo di ogni forma di odio razziale. E questa è la più grande sfida che dobbiamo combattere.
Ti ringrazio Gian Marco per la tua testimonianza. In teoria l’intervista è conclusa, però avrei ancora piacere di farti una domanda, in quanto mi sorprende molto sapere che hai fatto tutto ciò a soli 21 anni. E quindi ti chiedo, qual è la tua opinione sui giovani italiani?
Sono tornato dallo Zambia da poche settimane e sto facendo tanti incontri nelle scuole. I ragazzi sentono molto queste tematiche. Ci sono di certo tanta paura e tanta insicurezza. E tutto ciò è frutto del contesto in cui viviamo, molto chiuso. Siamo abituati a vivere un sentiero già tracciato. Quando vado nelle scuole a parlare del mio progetto, viene visto come un qualcosa completamente fuori dal comune e completamente irrealizzabile. Tutti mi chiedono “…ma come hai fatto? Come ci sei riuscito?”, e la mia risposta è: “Ho preso e sono andato”.
I ragazzi di oggi, i nativi digitali, hanno una mentalità più aperta, più abituati a vedere punti di vista diversi però alla fine seguono sempre la strada tracciata. Università e poi lavoro. Io a Londra lavoravo, avevo un contratto da libero imprenditore, guadagnavo bene. Un ragazzo, che aveva la mia età, mi ha detto: “Gian Marco, tu stai lavorando benissimo, hai un sacco di soldi, però come farai con la pensione?”, ma a ventun anni pensare alla pensione è una cosa che non mi tocca, non perché sono irresponsabile, ma perché non posso impostare la mia vita di oggi pensando a ciò.
Questo è il problema della nostra generazione, di dare tutto per scontato. E cioè è scontato che ci arriverai a ottant’anni, su un percorso che già oggi è tracciato. Io faccio sci di fondo, è uno sport nel quale è necessario andare sui binari. Tuttavia dico sempre di uscire dai binari, perché la nostra strada la decidiamo noi. Dico sempre ai ragazzi: “Non sprecatevi!”. Cercate di trovare il ruolo nel mondo che vi permetta di mettervi in gioco il più possibile. Secondo me sono in grado di farlo, ma ciò gli fa molta paura. Siamo ragazzi, abbiamo bisogno di stimoli. Questa per me è una sfida, provarli a stimolare per inseguire il loro percorso.
Ringraziamo Gian Marco. La sua testimonianza ci invita e ci sprona a metterci in gioco, in un campo da calcio così come (e soprattutto) nella vita.
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