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Tutto si svolge nel villaggio all’interno della comunità: è quello il centro della realtà, l’unico orizzonte cui conformarsi. I puffi possono essere studiati a più livelli e da varie prospettive: estetica, culturale, politica, sociologica, psicoanalitica e pedagogica. Quest’ultima, probabilmente, ha sempre avuto un ruolo predominante, se non altro perché la narrazione si rivolgeva prevalentemente a un pubblico di bambini.
Il villaggio può essere considerato a buon diritto al pari di un’aula scolastica. Ma la giornata si svolge in modo ben diverso. Potremmo dire che la Descolarizzazione della società, proposta da Ivan Illich, prende qui pienamente corpo. Il Grande Puffo, infatti, non è un insegnante nel senso classico del termine, bensì un educatore. L’atto dell’insegnare – espresso dalle istituzioni scolastiche occidentali – schiaccia dall’alto verso il basso il discente.
Nell’insegnare, il docente indica, dice, impone all’alunno la nozione definita, il programma ministeriale, la sua visione personale spacciata per oro colato. Il Grande Puffo, invece, educa, che vuol dire letteralmente “trarre fuori”; con esperimenti, magie, operazioni pratiche a cui assistono anche i puffi, il maestro col cappello rosso mostra ai suoi piccoli amici come penetrare nei segreti della realtà per intendere meglio ciò che avviene. L’atto compiuto stimola l’intelligenza di chi sa intendere, che deriva da intus-legere (leggere dentro) così come da inter-legere (leggere tra). L’intelligente è colui che sa leggere dentro la natura e sa stare tra l’essere, sa collegare i dati, le relazioni, le conoscenze.
Il tutto si svolge sempre con grande allegria, nella cura dell’ambiente in cui si abita e da cui si è abitati. Questo aspetto emerge chiaramente. Il luogo in cui si sta costituisce anche chi in quel luogo si trova a vivere. Ognuno è il portato di incontri e relazioni che intreccia quotidianamente: ciò sta a significare, allora, che un ambiente deturpato, vilipeso, distrutto determina una trasformazione antropologica e ontologica. Chi vive immerso nella bruttezza finisce per trasformarsi in un mostro, non ha più cura di sé, né dei suoi simili, né ancor meno del territorio che lo circonda.
Un altro elemento molto interessante è l’assenza totale della tecnica. I puffi si affidano alla magia della natura, vivono in simbiosi con la terra che abitano, costruiscono case di piccole dimensioni, si nutrono di ciò che trovano, vivono di raccolta, e traggono la loro sussistenza prevalentemente dall’agricoltura. Per costruire ciò di cui hanno bisogno utilizzano prevalentemente il legno, o comunque del materiale “naturale” (dove per naturale si intende “non di sintesi”).
Le loro attività sono svolte tutte nel rispetto totale della bioenergetica e in ultimo, ma non per ultimo, le abitazioni sono completamente prive di elettricità. Per illuminare le stanze, quando è buio, fanno luce con le candele, scrivono con la piuma d’oca, si muovono a piedi, anche perché non esistono automobili, né veicoli a combustione, non compaiono palazzi, centri commerciali, né complessi industriali. Le loro esistenze quotidiane seguono il ritmo naturale alternato fra buio e luce; usano alcuni strumenti per facilitarsi la vita e quindi in un certo senso anche loro hanno a disposizione una tecnica, che però non è paragonabile a quella dei nostri tempi, perché non serve a produrre in serie, né a produrre merci in quantitativi sempre maggiori.
Per certi versi potremmo dire che il loro è un mondo pre-industriale, e già solo questa considerazione basterebbe a smentire chi nel corso del tempo ha voluto vedere nei puffi una società marxista o, addirittura, nazista. Il nazismo e il marxismo sono opzioni politiche pienamente industrialiste e ideologiche. Nella comunità puffesca, invece, si abita l’utopia, si abita il non luogo, il non ancora, l’altrove.
In conclusione, da critico del progresso, mi sembra molto interessante notare come i puffi non considerino affatto il progresso un valore, un fine in sé, o un tendere sempre verso il meglio. All’interno del villaggio il progresso tecnologico è bandito. In una delle prime Storie di Puffi, il puffo inventore progetta una macchina capace di trasformare un grosso sacco di ghiande in una moneta d’oro. “Cosa farai con questa moneta d’oro”, chiede il Grande Puffo?. “Comprerò un altro grosso sacco di ghiande”, risponde l’inventore. In due battute viene denunciata l’assurdità della produzione fine a se stessa; qui sono messi alla berlina la tecnica e il lavoro, che nel nostro mondo industriale hanno finito per diventare fini in se stessi, e non invece mezzi da usare in vista della vita e della felicità. L’esplosione dell’apparato tecnico spinge oggi il nostro mondo sull’orlo del baratro e la tecnica, divenuta signora indiscussa, finisce per schiacciare tutti, anche coloro che pensano di dominarla.
Ai puffi non sarebbe successo. Loro sapevano che degli strumenti che stravolgono il mondo non bisogna mai fidarsi, perché il progresso tecnico è nocivo, causa devastazioni e morte. Nel libricino illustrato, dal titolo Non si puffa il progresso, il puffo inventore organizza la produzione all’interno del villaggio, e introduce dei robot in legno capaci di sostituire i puffi nel lavoro quotidiano. Avviene, però, che le creazioni finiscono per ribellarsi all’inventore e sottomettono l’intera comunità. Il puffo contadino, rimasto ai margini della società, sarà l’unico in grado di salvare il villaggio, dando i robot di legno in pasto alle termiti.
Come si fa a non amarli questi esserini alti, su per giù, due mele o poco più? Con la loro semplicità ci insegnano che il ritorno alla terra, alla naturalità dei cicli biologici, è l’unica via di salvezza, è l’unica strada che abbiamo per sottrarci al dominio della tecnica, che sta conducendo l’occidente – e oggi l’intero mondo – alla catastrofe cosmica.
Ma una luce, una luce resta ancora alta all’orizzonte. È la candela tenuta in mano dal Grande puffo e dai suoi piccoli amici che brilla senza requie nei pressi dell’utopia…
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