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II
Di chi è già stato qui
non sa niente nessuno
perché ogni volta
si sparecchia la tavola,
ogni giorno puliscono
il marmo freddo
delle pescherie.
III
Tutto sommato,
quello che conta è poco,
il resto va,
polvere d’ogni vivo,
quel di più che non giunge
a perfezione alcuna.
Sono le ultime due strofe di un trittico scritto da Francesco Scarabicchi (in Il viale d’inverno, edizioni L’obliquo, 1989).
“Di chi è già stato qui non sa niente nessuno”, scrive Francesco Scarabicchi. Ed ha ragione. Perché non c’è nessuno che conosca la strada dei giorni perduti, nessuno che sappia la via diretta al futuro. Si cammina piuttosto a tentoni, cercando d’inciampare fra le pietre scartate che scalfiscono la corteccia e frantumano la corazza, fino a renderla fragile testata d’angolo. E le schegge il vento finisce per spazzarle via. Così non resta nulla. Se non il ricordo di un volto, lo sguardo smarrito verso un qualsiasi altrove. E ognuno di noi svanisce come quelle vite remote. Come quelle briciole spazzate via dalla tavola di cui si avverte appena il silenzio dell’eco. Un grido sordo che nessuno potrà mai ascoltare, e che ciononostante s’appella a un’estrema speranza. Ci sono. Sì, ci sono. Ognuno di noi spera di esserci ancora.
Ma ciò che conta, di noi, è davvero poco. Il resto è polvere. È polvere di cui siamo fatti. Di cui è fatto il mondo. Quel mondo che scorre nel fiume eracliteo. Quel mondo che non ha pace, che non ha dimora, che non ha approdo. E per questo “non giunge a perfezione alcuna”.
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