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La guerra che il grande capitale ha scatenato contro i mezzadri e i piccoli proprietari terrieri viene descritta in modo memorabile da John Steinbeck nel romanzo The Grapes of Wrath (Furore), di molti anni fa. Vi chiederete perché allora parlarne oggi. Perché a distanza di oltre settant’anni tirar fuori questa storia. Be’ intanto perché suppongo che molti magari non l’avranno letta. E poi perché mi pare che riflettere su Furore ci aiuti a capire i motivi per cui l’agricoltura italiana si trovi da decenni in uno stato comatoso. Negli Usa era già tutto avvenuto negli anni trenta. Lì il “male” arriva prima. È più veloce, e come un felino ti morde la schiena…
John Steinbeck racconta una storia di travolgente intensità, incentrata attorno alla famiglia Joad, costretta a fuggire dall’Oklahoma lungo la Route 66, fino in California, per poter sopravvivere alla guerra che le multinazionali e le banche scatenarono, ai primi del novecento, contro i piccoli e medi agricoltori americani.
La narrazione porta in superficie tutto lo sdegno per un’industrializzazione dell’agricoltura che appare sin dai primordi diabolica. Con quegli immensi macchinari, con i trattori e con le tecniche di coltivazione intensiva, la rivoluzione compiuta dal capitalismo finisce per trasformare dalle fondamenta non solo la società, ma anche il paesaggio, un tempo colorato, poliedrico, affogato nella biodiversità, e ora invece uniforme: monocromatico e smorto.
Steinbeck descrive minuziosamente la tragedia e sceglie di stare con gli ultimi, con coloro che perdono il confronto – anche se in verità si dovrebbe parlare di scontro all’ultimo sangue – con i colossi della finanza. Ma forse lo scrittore americano non fa fino in fondo i conti con il male radicale della sua civiltà (ch’è poi il male radicale della civiltà occidentale): la violenza.
Il mezzadro Tom Joad, a cui è stato dato lo sfratto dal terreno, protesta contro un delegato dei nuovi proprietari terrieri vantando dei diritti acquisiti sulla proprietà agricola da cui lo si vorrebbe cacciare: “Mio nonno ha preso questa terra e ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli via”, protesta. Ma, per l’appunto, il Tom Joad che ora invoca pietà e chiede di vedersi riconosciuti i diritti di possesso di quella terra, è il nipote di colui che anni prima non ebbe alcuna pietà contro i nativi, che quella terra calpestavano liberamente da secoli. E Tom Joad subisce ora quella stessa violenza che si ripresenta ciclicamente nella società occidentale come coazione a ripetere. Perché dalla violenza non può nascere nulla di buono: è questo il punto che Steinnbeck intravede, ma che non mette in luce a sufficienza.
Quello che spiega molto bene è invece il potere spersonalizzante e liquido della tecnica. Il delegato dei proprietari protesta la sua innocenza e ribadisce di trovarsi lì solo per portare a termine decisioni prese da altri, dal “mostro”. Il mostro è la sovrastruttura impalpabile che decide le sorti di milioni di contadini americani:
Ci dispiace. Non siamo noi. È il mostro. Una banca non è come un uomo.
Sì, ma la banca è fatta di uomini.
No, qui vi sbagliate… vi sbagliate di grosso. La banca è qualcosa di diverso dagli uomini. Tant’e vero che ogni uomo che lavora per una banca odia profondamente quello che la banca fa , e tuttavia la banca lo fa ugualmente. Credetemi, la banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla (p. 47).
I mezzadri urlano, ma non c’è niente da fare. Perché non si può fare niente contro un potere che non ha corpo e che si muove come un ectoplasma sopra uomini, nazioni e cose. Dinanzi a un nemico di questo genere non è possibile reagire coralmente, non si dà alcuna possibilità di ribellione sistemica, di rivoluzione collettiva.
In queste righe, Steinbeck anticipa di qualche decennio la riflessione sulla società liquida di cui ci parla Zygmunt Bauman. In una società liquida, il potere è etereo, sfuggente: è un mostro. Una struttura sovrastante che domina ogni essere vivente, ogni cosa, senza scampo.
Joad, che non ha ancora compreso del tutto la radicalità di questo potere, urla che non la darà vinta, che farà come il nonno con gli indiani. Ma qui Steinbeck mostra di aver capito pienamente lo stravolgimento compiuto dal potere finanziario, tanto che fa dire al delegato dei proprietari, che nulla può essere più come un tempo, perché la terrà ora è della banca, è del mostro, e se qualcuno proverà a prendere i fucili come con gli indiani, arriveranno gli sceriffi e poi l’esercito a sistemare le cose.
Sarete ladri se tenterete di restare, e sarete assassini se ucciderete per restare. Il mostro non è fatto di uomini ma fa fare agli uomini quello che vuole (p. 47).
Il mostro sa di avere dalla sua parte l’ordine costituito. Ieri, contro i nativi, il potere sosteneva quei violenti, come il nonno di Tom, che uccidevano per accaparrarsi tavole di terra; ma oggi, nella corsa a servire il più forte, spalleggia il mostro finanziario, spianandogli la strada. E per chi resta indietro non c’è pietà. Tom chiede: «dove andremo se ce ne andiamo? Come faremo? Non abbiamo denaro?» (p. 47). La risposta non ammette repliche, perché è solo manifestazione di fredda e distaccata burocrazia:
Non è una responsabilità della banca, del proprietario di cinquantamila acri. Siete su una terra che non vi appartiene (p. 48).
Dal racconto di Steinbeck emergono con chiarezza le dinamiche con cui il potere economico, tecnologico e industriale ha dichiarato guerra ai mezzadri e ai contadini, finendo per vincerla la guerra.
Ma tutto questo è solo il primo passo. Perché la cacciata dei mezzadri dalle terre è l’inizio dell’inferno.
La famiglia Joad, insieme a molte altre, si avventura in un esodo biblico dall’est all’ovest dell’America, cercando fortuna presso fattorie della California. Una volta giunti in quel posto che veniva definito da tutti una sorta di paradiso terrestre, si rendono però conto che il mostro opera ovunque.
I Joad cominciano lentamente a comprendere che non sono solo quelli come loro sotto attacco. Il mostro ha allungato i suoi artigli anche sui piccoli agricoltori, che per sopravvivere sono costretti, ogni anno, a chiedere prestiti alle banche, esponendosi quindi al rischio di perdere ogni cosa. Inoltre, le banche – ormai divenute proprietarie di immensi latifondi – impongono ai piccoli proprietari terrieri i prezzi dei prodotti e le tariffe per gli stipendi degli operai.
Steinbeck ce lo racconta tramite il figlio dei Joad, Tom, omonimo del padre, che assiste a un dialogo fra il suo collega Timothy e il signor Thomas, proprietario di una piccola fattoria.
Devo dirvi un paio di cose. Io v’ho sempre pagati trenta centesimi l’ora, vero?
Be’… sì, signor Thomas… ma… […].
E voi ve li siete sempre guadagnati.
Cerchiamo di darci da fare.
Be’, perdio, da oggi la paga è di venticinque centesimi l’ora, prendere o lasciare.
Timothy disse: ‘Abbiamo sempre lavorato bene. L’ha detto lei’.
Lo so. Ma a quanto pare non sono più io a decidere la paga dei miei uomini… State a sentire. Io qui ho sessantacinque acri. Avete mai sentito parlare dell’Associazione degli agricoltori?
Sì certo.
Bene, io sono uno dei soci. Ieri sera c’è stata una riunione. Ora, lo sapete da chi dipende l’Associazione Agricoltori? Ve lo dico io. Dalla Banca dell’Ovest. La banca possiede quasi tutta la vallata, e ha crediti su tutt’il resto. E ieri sera il rappresentante della banca mi fa: ‘Lei i suoi uomini li paga trenta centesimi l’ora. È meglio che scende a venticinque’. E io dico: ‘I miei uomini lavorano bene. Valgono trenta centesimi’. E lui: ‘Non è questo il punto’, mi fa. ‘Ora la paga è venticinque. Se lei paga trenta, crea scontento. A proposito’, mi fa, ‘per il raccolto dell’anno prossimo le serve il solito anticipo?’ (pp. 409-410).
Steinbeck ci descrive un proprietario terriero ansimante che conclude il confronto col suo dipendente senza alcuna possibilità di replica: “È chiaro ora? La paga è venticinque centesimi” (p. 410).
Il mostro detta le regole del mercato e spinge ai margini chi non si adegua. Tutto ciò non fa altro che creare malcontento e esacerbare la sperequazione sociali. Sullo sfondo restano le macerie. Una civiltà distrutta, famiglie spezzate, comunità svanite nel nulla.
La moglie di Tom, ormai al colmo della disperazione, pensa ai tempi andati, alla vita serena degli anni precedenti e alla disgregazione prodotta da questa tragedia che chiamano mostro.
C’era un tempo che avevamo la terra. Era una cosa che ci teneva insieme. I vecchi morivano, e i bambini arrivavano, e noi eravamo sempre una cosa sola… eravamo la famiglia… e era come se tutto era unito e chiaro. Ora non è più chiaro niente. E io non lo capisco. Non c’è più niente a tenerci insieme (p. 545).
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