2 Mar 2016

Le culture indigene: il ruolo della donna, la relazione con la natura

Scritto da: Francesco Bevilacqua

Due dei relatori del convegno internazionale "Culture indigene di pace", di cui Italia Che Cambia è media partner, ci anticipano i temi della rassegna, soffermandosi in particolare sul ruolo della donna e sul rapporto paritario e armonioso con la natura di questi popoli con radici lontane.

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Torino - «Le società matriarcali sono culture di pace, sostenibili, egualitarie e orizzontali», un modo diverso di vivere, in armonia con la natura, con la Madre Terra e tutti gli esseri viventi. In vista del prossimo convegno internazionale Culture indigene di pace: i sentieri della Terra, organizzato dall’associazione Laima, che si terrà a Torino dal 18 al 20 marzo, ne abbiamo parlato con Daniela Degan, responsabile del laboratorio introduttivo al convegno “Un passo oltre” e della chiusura dell’evento, e con Alberto Castagnola, che terrà una relazione su “Donne e Uomini gilanici per una società radicata nella Terra. Avviare la transizione”. Entrambi collaborano da anni con l’associazione Laima.

 

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Parlando della relazione fra umanità e natura, quali sono gli aspetti principali su cui bisognerebbe intervenire oggi per riequilibrare tale rapporto?

 

Alberto Castagnola: «È necessario rivolgerci nuovamente alla Natura nella quale siamo inseriti e percepire nuovamente l’attrazione dei sistemi vitali che la compongono. Si tratta di interrompere, magari all’inizio solo per brevi momenti, i ritmi frenetici che ci travolgono e riscoprire i rumori, i suoni, i colori, le atmosfere di un bosco o di un corso d’acqua, di una spiaggia o di una collina, di un parco urbano o di una strada alberata. E cominciare a porci delle domande, molto elementari: cosa ci piace? Abbiamo voglia di toccare o di immergere una mano? C’è qualcosa che sta per fiorire? Cosa posso fare con le foglie cadute?

 

Se prendiamo l’abitudine di passare del tempo nel verde o di fare una passeggiata in montagna, possiamo cominciare a intravedere l’avvicendarsi delle stagioni e i mutamenti di colori e profumi. In alcuni posti non lontani dai luoghi delle nostre attività, si possono talvolta avvistare dei nidi o dei piccoli animali. Altre domande possono venire in mente: so riconoscere il nome di un albero o di un fiore? Qualche pianta è commestibile o ha effetti medicamentosi? Cosa si può portare a casa e cosa si deve lasciare intatto al suo posto? Ho dello spazio per far crescere una pianta in casa o sul posto di lavoro?

 

Se decidiamo di andare due o tre volte ogni mese a visitare territori particolarmente caratterizzati da preesistenze naturali attraenti (un parco o una riserva, una villa con un giardino storico, la zona di una produzione tipica, un’isola poco abitata), oppure di frequentare famiglie amiche che vivono fuori città, i nostri orizzonti naturali possono espandersi e magari abbiamo intenzione di leggere una poesia o un libro, che illustrano piante o descrivono animali selvatici. La nostra sensibilità, così stimolata, dovrebbe cogliere la complessità e la delicatezza dei processi biologici di riproduzione ed evoluzione, cercare le immagini delle danze di corteggiamento dei grandi vertebrati e la struttura multiforme degli organismi pluricellulari che abitano nei mari e nei terreni. Molti potrebbero finalmente cogliere le affinità che ci legano agli altri animali e il ruolo essenziale che svolgono colture come i cereali o le frutta nella nostra esistenza.

 

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Ora siamo coscienti che ogni cibo di cui abbiamo bisogno ha origini in Madre Natura, anche se poi le trasformazioni industriali continuano a far aumentare i rischi derivanti da alimenti che possono contenere residui di pesticidi, da carni lavorate piene di conservanti, da frutta trattate con prodotti chimici. Intervenire sulla qualità dei cibi e sulla assoluta sicurezza che deve essere garantita comporta una serie di azioni protratte nel tempo, ma è un compito che ciascuno può cominciare a svolgere e al quale deve essere attribuita la massima priorità.

 

Ma come sarà ben presto evidente, è l’intera gamma delle relazioni che può mutare radicalmente, sia tra gruppi di persone che nei confronti di tutto l’ambiente nel quale si vive e si lavora. Il riequilibrio dei meccanismi biologici e naturali non può avvenire senza una partecipazione attiva di tutte le popolazioni coinvolte. Possono cambiare anche le relazioni familiari, ad esempio con i figli che si assumono la responsabilità di garantire i comportamenti innovativi e corretti. Anche il tessuto economico può esserne profondamente mutato, con una parte crescente degli scambi che può diventare non più monetizzata (prevalere dei doni, del baratto e della cura reciproca e intergenerazionale) e con il diffondersi di logiche di scambio non più dominate dalla ricerca del profitto ma tendenti a favorire in ugual misura tutti i partecipanti alla produzione e al consumo.

 

Tutti i processi fin qui sommariamente descritti sono stati ispirati dalla visione di una presenza delle donne nei rapporti sia sociali che economici e con la Natura, ben diversa di quella attuale, ma che senza dubbio caratterizzava epoche storiche e preistoriche più lontane, quando la produzione industrializzata ancora non esercitava i suoi perniciosi effetti. Molte sono le prove e le evidenze che nella fase precedente a quella che si è convenuto di chiamare storica (diciamo fino al 3000 p.e.c), le donne svolgevano compiti essenziali per la sopravvivenza analoghi a quelli assunti dagli uomini. Molte invenzioni sono state con ogni probabilità opera delle donne, molto impegnate a garantire l’alimentazione, in particolare quella dei figli, e quindi in contatto continuo con l’ambiente naturale e le sue molteplici risorse che attendevano di essere individuate e sperimentate. Molti archeologi descrivono società pacifiche, che lavoravano già i metalli ma non forgiavano armi, che vivevano in villaggi con migliaia di abitanti».

 

Mapuche

In che modo vi proponete di incidere sulla vita quotidiana delle donne e degli uomini in Italia?

 

Daniela Degan: «Penso che il mio compito sia narrare ciò che è stato tenuto nascosto, una società egualitaria e solidale che è esistita ma che la storia non ci ha raccontato. Siamo state abituate a far iniziare lo studio della storia a partire dagli assiri e da lì in poi le figure fondamentali sono gli eroi, i guerrieri e poi i re. Invece delle archeologhe, in primis Marija Gimbutas, hanno avuto l’intuizione di andare a studiare le società del neolitico nelle quali i reperti archeologici ci dicono che è esistita una società matrilineare e matrifocale nella quale il ruolo delle donne non era ancora quello imposto dal sistema patriarcale. Si tratta di società fondate sul principio della solidarietà, della nonviolenza, in cui non esistevano la gerarchia, l’autorità, il principio dell’accumulazione e si rispettavano le risorse.

 

 

Il mio immaginario mi porta a credere che, se questo è stato, se l’umanità è stata in grado di vivere senza l’aggressività, è ancora possibile trovare una giusta distanza dalla guerra e dalle violenze degli uomini su altri uomini e su tutte le donne. Sapere che questo, nel passato dell’umanità, è stata la realtà di vita quotidiana mi porta ancora più fortemente a credere che ci sia bisogno della consapevolezza degli individui di farsi carico di questa necessaria e straordinaria trasformazione. La crisi diventa quindi solo una interruzione della ossessione del consumare illimitato e di conseguenza una occasione preziosa (di portata storica, direi, vista la necessità urgente di salvare il pianeta dall’uso smisurato delle risorse naturali) per reintrodurre una visione al femminile nei tanti modelli di vita sensata. Posso mostrare quest’altra ipotesi attraverso i laboratori, gli incontri in radio, gli scritti, il pensiero e l’azione, consapevole tuttavia che non necessariamente potrò incidere quantitativamente».

 

continua…

 

 

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