Dalla disobbedienza civile alla difesa del territorio: il Movimento Nonviolento si racconta (terza parte)
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Nell’articolo della settimana scorsa abbiamo visto come il Movimento Nonviolento (MN) alla fine di una lunga Campagna per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza (odc), nel dicembre del ’72, vide finalmente l’approvazione di una legge che sanciva il riconoscimento di questo diritto fondamentale.
Cosa successe dopo l’approvazione di questa legge?
Da lì poi partì un’altra fase di lavoro per la costituzione del Servizio Civile (SC) in Italia. Dopo l’approvazione della legge sull’odc infatti, non si sapeva ancora cosa ne sarebbe stato degli Obiettori di Coscienza (OdC), non essendoci regolamenti che dicessero dove e come si sarebbe dovuto svolgere il SC. Per un anno rimase tutto nel limbo. Poi decisero di mandarli tutti nei Vigili del Fuoco (VdF) con una chiamata unica ed un unico tipo di servizio. Noi eravamo contrari poiché a quell’epoca i VdF erano militarizzati, facenti parte del Ministero della Difesa (MdD). Quindi dichiarammo la nostra totale opposizione poiché, dopo la lunga lotta per il riconoscimento dell’odc per costruire delle politiche di pace, pretendevamo che il servizio fosse reso in vesti civili e non certamente militari e chiedevamo un’articolazione del SC che toccasse vari ambiti, in modo che l’obiettore potesse scegliere quello più adatto a sé: ambito culturale, istituzionale, ambientale e così via.
Ci fu quindi un confronto molto duro e serrato con il MdD a cui gli obiettori erano ancora strettamente legati: allora lo chiamavano “SC sostitutivo al servizio militare” ed era una cosa di serie B, essendo il sevizio militare la scelta di serie A. Ma in quel periodo la nostra campagna era piuttosto forte politicamente, per cui trattavamo quasi alla pari con il MdD, fino ad aprirci persino un piccolo ufficio dentro il Ministero stesso dove poter discutere delle varie questioni, fare proposte, vedere gli elenchi degli OdC e cercare convenzioni con i singoli enti e le associazioni del privato o del pubblico. Cosa che poi fece del SC italiano in quegli anni, quello più avanzato d’Europa.
Il primo fu la Comunità di Capodarco per questioni assistenziali, poi il Centro Polifunzionale Don Calabria a Verona, poi l’esperienza dei “manicomi aperti” della legge Basaglia in Friuli. Le diverse convezioni furono dunque accettate dal MdD, ma allora il SC durava ancora 8 mesi di più del Servizio Militare. Quindi ricopriva ancora un carattere punitivo. Per questo la nostra battaglia continuò: l’obiettivo finale era l’ottenimento del riconoscimento della parificazione totale, che l’odc non fosse più trattata alla stregua di una scelta di serie B, né che avesse ulteriori mesi punitivi. La lotta fu lunga e durò fino a 1980, in cui ottenemmo finalmente la legge di riforma del SC che incluse l’abolizione del periodo ulteriore di servizio, anche grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale. Una disciplina organica che riconoscesse compiutamente il diritto all’obiezione di coscienza però la ottenemmo ancora più tardi: nel 1998. E così via fino ad arrivare alla legge del 2004 che sospese definitivamente il Servizio di Leva Obbligatorio (di conseguenza anche il Servizio Civile) e partì invece l’iter per il Servizio Civile Volontario.
Tutto questo però dimostra che lavorare per campagne, con obiettivi definiti, chiari e raggiungibili e con un movimento ben determinato, funziona. Senza però alcuna umiliazione e capitolazione dell’avversario politico, ma creando alleanze. Lungo questo percorso facemmo certamente un bell’addestramento sulla nonviolenza, su come si applica compiutamente, sui passi da seguire. Questa lunga lotta costituisce anche una bella parte della storia d’Italia ed ha coinvolto intere generazioni di giovani, che anche tramite il SC ebbero occasione di avvicinarsi a determinate tematiche, oltre che di trovare la propria strada nel mondo.
Il Servizio Civile oggi rispecchia ancora gli alti ideali del passato?
Il SC è la scelta di colui che decide di contestare il servizio militare per non diventare una pedina nella macchina che poi rende possibile la guerra. Se ne chiama fuori perché vuole costruire qualcosa di diverso: costruire un processo di pace. È la scelta di colui che ripudia la guerra.
Questo concetto nei primi anni era molto chiaro e molto vivo, di qui anche la forza di rifiutare ad esempio la chiamata dei VdF, che non era da poco visto che tutti questi rifiuti si tramutavano in denunce e processi. Eravamo tutti molto giovani, 18-20 anni, quindi a casa con i genitori: certamente non era facile fare tutte queste scelte, ma c’era una forza, una determinazione dovuta anche alla chiarezza del punto di partenza.
Poi via via che si è andati avanti, soprattutto dopo l’abolizione del servizio militare obbligatorio e di conseguenza anche del SC, diventato poi volontario e aperto sia a ragazzi che a ragazze, la motivazione iniziale si è un po’ persa. Tanti giovani oggi si avvicinano al servizio civile solo come un’esperienza qualunque o anche per i 433 euro che gli vengono corrisposti. Sono in tanti a scegliere di fare il SC anche solo per ricevere questo compenso, specialmente al Sud. Abbiamo fatto anche delle indagini e questa è risultata una delle motivazioni principali. Quindi sempre più spesso viene a mancare il motivo principale dell’odc, ovvero quello per cui si vorrebbe costruire una politica di pace nel proprio Paese, perché ci si sente obiettore rispetto alla guerra. Questa motivazione dovrebbe restare anche se non c’è più la legge dell’obbligo della leva.
Quindi a partire dagli anni 2000 si è aumentati di molto numericamente, ma si è diminuiti rispetto alla forza propulsiva del SC. Nei fatti il SC dipende da come lo organizzi, da come lo proponi ai giovani, dai contenuti della formazione che gli dai durante i primi mesi etc. Per questi motivi ritengo che oggi il SC non abbia più la valenza di una volta. Noi invece ancora oggi con la proposta di legge per la Difesa Civile Non armata e Nonviolenta intendiamo il SC come un modo per servire la patria costruendo politiche di pace e rivalorizzarne il concetto.
Oltre che per l’obiezione di coscienza, in quali altre campagne avete portato avanti la disobbedienza civile?
La disobbedienza civile è una cosa seria e bisogna saperla utilizzare. Noi intendiamo la disobbedienza civile riprendendola all’origine da Henry David Thoreau, poi dalla sua attuazione effettiva che è stata fatta prevalentemente dal Mahatma Gandhi e ripresa da M.L. King ed infine anche qui in Italia. Disobbedienza civile significa disobbedire a una legge che viene ritenuta ingiusta, su motivi fondamentali. Devono essere motivi fondanti per la vita o per la morte, riguardare cioè una legge superiore: per alcuni può essere la legge di Dio, per altri la legge della coscienza, ma su questioni decisive. Bisogna essere pronti a violare la legge, quindi a subirne tutte le conseguenze e soprattutto avere una proposta costruttiva.
Quindi la prima applicazione è stata quella di cui abbiamo parlato per l’odc.
Ma in quegli anni era anche partito il movimento antinucleare in Italia contro il piano energetico che verso la fine degli anni ’70, inizi ’80 prevedeva l’installazione in Italia di 90 centrali nucleari. Il luogo per la costruzione della prima centrale nucleare fu individuato a Montalto di Castro (VT). Quello in Italia era anche il periodo della nascita del movimento ambientalista, verde e così via. Abbiamo partecipato a questo movimento contro la costruzione della centrale nucleare di Montalto di Castro, applicando anche in questo caso la disobbedienza civile: siamo entrati nei terreni, ci siamo seduti sui binari della ferrovia bloccando i treni, richiamando l’attenzione e l’opinione pubblica sulla cosa e abbiamo subìto processi. La proposta era un piano energetico alternativo, per il quale in quegli anni vi era grande fermento: organizzavamo dibattiti, convegni, simposi, dove si studiava insieme una proposta diversa dal nucleare, con energie alternative. Era l’occasione per una vera e propria riflessione sul modello di sviluppo che avrebbe dovuto intraprendere l’Italia, sul piano nazionale.
Come avete coniugato la difesa del territorio con i principi della nonviolenza e della disobbedienza civile?
Intanto c’era una commistione stretta e dimostrata tra nucleare civile e nucleare militare. Poi da lì derivava tutto il modello di sviluppo: il modello nucleare è un modello centralizzato, richiede la militarizzazione del territorio etc. Un modello più dolce a quel tempo era soprattutto l’idroelettrico, perché col boom economico degli anni ’60, il motore principale fu quello delle piccole centraline idroelettriche, ma soprattutto qui al Nord. Sono state il vero motore, sia per lo sviluppo che si poteva ipotizzare per l’Italia intera in quel periodo, che per quello a venire. Ora il contesto è tutto diverso, ma allora l’energia idroelettrica sarebbe stata più che sufficiente.
L’imposizione del nucleare veniva da fuori: era un piano internazionale che prevedeva che anche l’Italia, come la Francia, basasse tutto lo sviluppo sul nucleare. Poi fortunatamente anche per merito del movimento antinucleare (non da solo, ma ovviamente una parte importante ce l’abbiamo avuta) il piano è fallito: il progetto nucleare in Italia è stato chiuso e si sono sviluppati altri settori.
Quindi forme di disobbedienza civile le abbiamo applicate anche nella campagna antinucleare in Italia. Con dei bei processi, importanti perché vinti. È stato importante, tra l’altro, aver creato un nucleo portante di avvocati fra i migliori d’Italia, tra cui gli avvocati Ramadori, Mellini e Canestrini (alcuni scomparsi) che si erano messi a disposizione. Li avevamo conosciuti durante il periodo dell’odc e poi si erano anche specializzati sulla disobbedienza civile. Quindi poter discutere nei tribunali, fare le arringhe, parlare di Gandhi, di diritti superiori e della Costituzione, era anche una scuola di educazione civica. Non a caso ad assistere ai processi facevamo in modo che venissero anche le scolaresche.
Anche al processo per il blocco ferroviario a Montalto di Castro, fummo pienamente assolti. I giudici riconobbero lo “stato di necessità putativa”, così come lo chiamarono. In altre parole quando ritieni che sia in pericolo un valore grosso, magari puoi sbagliare a ritenerlo in pericolo (ecco perché i giudici hanno aggiunto la parola “putativa”), ma sei in buona fede e pensi che sia davvero in pericolo un bene superiore come la libertà o la democrazia, hai ragione di violare quella legge.
Aver avuto quelle assoluzioni ha fatto giurisprudenza. Poi questa sentenza è stata ripresa tante altre volte in numerosi altri casi.
Qualche anno dopo, forti di questa scuola e di questa vittoria, quando agli inizi degli anni ’90 ci fu la 1ª guerra del Golfo a cui l’Italia partecipò, il trasporto di armi dalla Germania e verso il Golfo passava per l’Italia per mezzo di treni, poi arrivava nel porto di Ancona o di Bari e con la Marina Militare venivano trasportate nell’area del Golfo. Ci fu una campagna internazionale in Germania, Austria, Italia, di blocco dei treni. Partecipammo anche noi (mi distesi sui binari di notte), con un blocco importante a Verona nel gennaio del ’91. Facemmo una bella azione nonviolenta, organizzata molto bene, eravamo in tanti. Abbiamo subìto un processo che andò in 1º grado, poi in appello. Anche lì si concluse con l’assoluzione piena, con le stesse ragioni, rafforzate (i Giudici ritennero che avevamo agito per salvare vite umane e ci assolsero). Sempre subendo processi, con l’appoggio di avvocati e mobilitazioni fuori dal tribunale.
L’imputazione era grave: un blocco ferroviario con il quale fermammo un’ottantina di treni poiché bloccammo tutto tra l’incrocio del Brennero e la Milano-Venezia. Se ci avessero condannati non saremmo più usciti di galera! (Scherza M. Valpiana, ndr).
Anche questa campagna quindi rientrava in una scuola di disobbedienza civile su un fatto determinante: bloccare delle armi destinate ad un teatro di guerra e che prima o poi avrebbero procurato morti e feriti, quindi ampiamente giustificata. Questa dunque fu la 3ª campagna in cui utilizzammo la disobbedienza civile. Quindi prima l’odc, poi la campagna contro nucleare e poi contro quelli che noi chiamavamo i “treni della morte”. Quest’ultima poi si ripeté in molte altre città: Trento, Rovereto, Bologna. Il caso più clamoroso contro i treni della morte fu a Verona, dove ci organizzammo molto bene anche nei rapporti con la Polizia: avevamo sparso la voce che avremmo effettuato il blocco alla Stazione Di Porta Nuova, poi in realtà eravamo in un’altra stazione. Quando portarono via il nostro gruppo pensavano di aver finito; c’era invece un’altra squadra pronta che bloccò i treni a varie riprese, mandando l’azione per le lunghe, con tutti i treni fermi.
In realtà fu un’azione simbolica poiché sapevamo bene che alla fine il treno sarebbe passato lo stesso. Non c’era l’illusione di fermare la guerra, ma ci fu un ritardo di qualche ora e soprattutto fu un fatto educativo nei confronti dell’opinione pubblica: volevamo far capire che la guerra è una cosa che ci riguarda da vicino, che passa proprio qui da noi e c’è bisogno proprio che ognuno si interroghi per capire cosa deve fare per non collaborare.
Continua…
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