29 Gen 2016

Di cosa parliamo quando parliamo senza aver finito di pensare

Spesso il nostro pensiero si ferma alla superficie delle cose, senza fare lo sforzo di andare un po' più sotto per cogliere la complessità. Ci si ferma alle risposte immediate, senza lasciare che esse generino altre domande di vitale importanza.

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Detestava le persone che parlano
senza aver finito di pensare,
dunque detestava quasi tutta l’umanità”.
(Thomas Bernhard)

 

Spesso il nostro pensiero non riesce a cogliere la realtà nel suo complesso, nella sua magmatica poliedricità. Magari per pigrizia o sfiniti dall’abitudine, ci fermiamo alle risposte confezionate. Non indaghiamo in profondità, perché la ricerca comporta un impegno e una capacità di analisi che non siamo in grado di sostenere.

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D’altronde c’è così tanto da fare per sopravvivere, che non si ha mai il tempo per riflettere. Resta più comodo prendere in prestito i pensieri, o comprare i sogni degli altri a buon mercato. Sogni che sono spesso incubi. Ma a noi che importa? Tanto domani è un altro giorno, e sarà quello buono. Quello della svolta. Quello in cui riusciremo finalmente a scalare la piramide sociale per fissarci al vertice e dominare finalmente. E a quel punto, quando saremo giunti così in alto, avremo tutto il tempo a disposizione per farci un’interminabile serie di domande. Ma forse sarà già troppo tardi…

 

Il prezzo del carburante scende sempre di più. Benissimo, si dirà da tutte le parti: si può viaggiare di più, spostarsi, lavorare meglio. E poi per il riscaldamento è tutta un’altra storia: avremo casa calda, anzi caldissima, finalmente. Quasi una benedizione, verrebbe da pensare. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Le città sono sempre più inquinate, assediate dalle polveri sottili. E anche i piccoli centri non sono al riparo dal problema, con tutti i gravi guai per la salute che conosciamo. Inoltre, sulle strade ci sono circa 5000 morti l’anno e uno sterminato numero di feriti. Per non parlare poi dei problemi fisici dovuti allo stress e alla vita sedentaria, che non ci sarebbero se si usasse la bici o si andasse a piedi, o con i mezzi pubblici. E che dire dei raffreddori, dei maldigola e di tutti quei malanni che si scatenano in inverno, quando sottoponiamo il nostro corpo a violenti sbalzi di temperatura. Perché è chiaro che se il carburante costa poco, metto il riscaldamento a venti gradi e giro in casa con maglietta e pantaloncini, che fa più figo. Coi bicipiti brillanti e i tatuaggi in bella mostra.

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Il prezzo delle arance scende sempre di più. Possiamo fare spremute a volontà. E anche il resto di frutta e verdura non aumenta. Ancora: benissimo. Ma, ancora, siamo sicuri che sia un fatto così positivo? Questi prodotti vengono spesso raccolti da schiavi sfruttati e costretti a lavorare fino a dieci, dodici ore sotto il sole. Il tutto, stipato in un autoarticolato, viene poi trasportato a basso prezzo da una parte all’altra della penisola, con i problemi elencati sopra riguardanti i carburanti, il traffico col relativo rischio di incidenti, l’inquinamento acustico. E poi per farle mantenere più a lungo, queste benedette arance, o per evitare che si rovinino negli spostamenti è necessario trattarle con prodotti chimici, battericidi, conservanti. Lucide sono lucide: effetto copale e belle come il sole. Ma del frutto non resta nulla.

 

E potremmo elencare ancora molte altre contraddizioni del nostro sentire comune. Preferiamo sottolinearne un’ultima soltanto: lo stato sociale. Chi potrebbe mettere in dubbio la sua valenza positiva? Chi vorrebbe tornare indietro a un’epoca che non lo aveva ancora neppure pensato? Eppure tutti ci lamentiamo della odierna mancanza di solidarietà. Dell’individualismo sfrenato. Dei legami sociali distrutti. Ma non è forse questa una lampante contraddizione? (Pari solo all’altra grande contraddizione: di quando lamentiamo di essere troppo consumisti e, al tempo stesso, affidiamo al “far ripartire i consumi” tutte le nostre speranze).

 

Lo stato sociale è nemico della solidarietà. Ivan Illich dice: “La sirena di un’ambulanza udita per la prima volta in un paese che non ne aveva, distrugge il legame sociale”. Superfluo forse aggiungere qualcosa a una così lampante evidenza: se c’è uno Stato che provvede a un tuo bisogno, io sono esentato dal venirti in aiuto. Se stai male, non è compito mio portarti in ospedale: c’è l’ambulanza, che per di più è accessoriata per ogni evenienza. Inoltre, rispetto agli anni ’70, nei quali Illich scrive Nemesi medica (da cui la citazione), oggi la situazione è ulteriormente cambiata (aggravata?): io non sono più esentato dal venirti in aiuto, ma spesso ne sono impossibilitato per legge. Se ti soccorro, devo stare attento a non compiere qualcosa al di fuori del protocollo legale, oppure rischio seriamente una denuncia penale.

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Se ci si ferma a riflettere, si vede bene come sia tutta una questione di orizzonte, di visione. Dal momento che un’azione, un fatto, un evento sono di per se stessi neutri. Solo lo scopo li qualifica. Perché è in virtù di un certo scopo che l’azione o un dato fatto sono proprio quell’azione e quel fatto.

 

Pertanto la riduzione del prezzo del petrolio o degli ortaggi è una buona cosa, se nel cuore si ha ben chiara la rotta. Ma se invece si resta all’interno della cultura consumista, a fronte della riduzione dei prezzi si finisce per aumentare l’acquisto di merce, con tutto il carico di distruzione e morte che ne consegue: il mondo si va rapidamente trasformando e all’orizzonte appare la notte; ovvero il buio annichilente che rende questa nostra terra ogni giorno sempre più inabitabile.

 

“Teniamo in serbo le nostre domande perché noi stessi
ne abbiamo paura, poi ad un tratto è troppo tardi per porle.
Vogliamo lasciare in pace l’interrogato, non vogliamo ferirlo
profondamente perché vogliamo lasciare in pace noi stessi e
non ferirci profondamente. Rimandiamo le domande decisive
e facciamo senza posa domande ridicole, inutili e meschine,
e quando facciamo le domande decisive è ormai troppo tardi”.
(Thomas Bernhard)

 

 

 

 

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