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Ci siamo mai chiesti quali sono le motivazioni che portano oggigiorno migliaia di stranieri sulle nostre rive? Le grandi migrazioni del passato erano conseguenza della ricerca di lavoro, benessere e della fuga da situazioni di carestia e povertà. Una scelta da parte degli individui di muoversi verso altri lidi. Sarà proprio così anche questa volta?
L’unico modo per scoprirlo è tanto facile quanto immediato: ascoltare la voce dei migranti e chiedere loro perché sono arrivati in Italia. Provando a parlare con loro, molti miti e maldicenze si sarebbero già spente come un fiammifero acceso in riva al mare e spento in un secondo dalla forza lieve del venticello. Per farlo, vi racconto la storia di un ragazzo del Mali, che ho avuto piacere di incontrare in un centro di accoglienza nel Biellese, del quale come a lui promesso non dirò il nome. Tale estratto è preso (con qualche modifica) dal diario del Biellese Che Cambia, 21esima tappa.
“Lui è dovuto scappare dalla sua terra. Era rappresentante di un’associazione studentesca, che non era favorevole alla dittatura presente nel Mali. Molti suoi amici vennero fucilati per questo. Lui fu solo ferito, ma dovette scappare dal suo paese. Arrivò sino in Libia, dove venne imprigionato senza motivo dopo aver passato alcuni mesi sereni. Fu poi obbligato a partire per l’Italia, passando dalla camera di un carcere ad un barcone in mezzo alle onde.
Ci spiega come vi siano due vie per giungere in Italia. La prima, quella che conosciamo, si basa su una scelta volontaria del migrante che paga uno scafista per raggiungere la nostra nazione. La seconda via, della quale non si parla e bisognerebbe chiedersi il perché, è invece obbligata: il migrante contro la sua volontà viene preso di forza e portato nel Bel Paese. Il motivo, secondo quel che ci racconta il ragazzo maliano, è dato dal fatto che organizzazioni locali a sfondo religioso forzano l’emigrazione verso l’Europa per creare subbuglio sociale e politico nel nostro continente. Direi che lo stanno facendo bene.
Nel viaggio pensava ormai di morire, dopo tre giorni in mare il motore della nave si è rotto. Grazie all’intervento dei soccorritori italiani è riuscito a salvarsi. Ha un sorriso contagioso. Ringrazia l’Italia che l’ha accolto. Spera di ottenere il permesso di soggiorno per poter finire i suoi studi in Economia. Nel tempo libero legge il dizionario. Nel mentre arrivano diversi ragazzi al tavolo, alcuni di loro giocano a dama. Uno di essi veste un cappotto invernale, nonostante la temperatura sia superiore ai trenta gradi. Ci racconta del ramadan, della sua religione, dell’analfabetismo in Mali che raggiunge picchi dell’80%. Il motto dell’associazione studentesca cui faceva parte è “Osare è lottare, osare è vincere”.
Avete capito? Una buona percentuale dell’emigrazione verso l’Italia non si basa su una scelta volontaria dell’individuo alla ricerca di lavoro, felicità e tranquillità così come è stato per noi italiani anni fa. Un’ organizzazione manovra a tavolino il movimento di vite umane, che vengono prima imprigionate e poi mandate in Europa per creare scompiglio nel nostro continente. Non ci sentiamo ora tutti un po’ più stupidi? A lottare e litigare internamente per qualcosa che è creato ad hoc da qualcun altro? Perché non vogliamo realizzare tutto ciò e a livello comunitario prendere delle decisioni sagge in merito, rispettando e accogliendo sempre e comunque la persona umana in quanto tale?
Pochi media hanno avuto il coraggio di raccontare questa situazione . Dovrebbe essere la prima cosa che si fa quando si parla di immigrazione. Molti politici, però, non avrebbero più magliette da mostrare in TV contro queste persone. Dobbiamo utilizzare il nostro tempo, italiani e europei, per meglio progettare e strutturare una accoglienza sana quanto arricchente per tutti. Tutto ciò per evitare una fine come quella della storia di Tano, l’amico di Luis Sepúlveda. Davanti a diversi bicchieri di vino, infatti, l’autore cileno dovette con dispiacere rispondere sì quando Tano gli chiese se era vero che in Europa gli immigrati venivano maltrattati.
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