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Sviluppo, s. m., da volupulu(m) [alterazione di volutulu(m)], è un vocabolo di formazione romanza di origine latina, derivato a sua volta dal participio passato del verbo volvere (avvolgere, volgere, rotolare), che trova la sua continuazione nella variante dialettale toscana vilùppio, per poi confluire nell’italiano viluppo. La s- iniziale, che ha la medesima funzione negativa del prefisso dis-, esprime il senso opposto alla voce cui si unisce; lo s-viluppo è quindi l’esatto contrario del viluppo, è uno s-volgimento, è il tentativo di districare ciò che è aggrovigliato, di liberare qualcosa dall’intreccio.
Il termine viene usato originariamente in ambito biologico come metafora per descrivere il processo attraverso cui un organismo libera la sua potenzialità, entro i limiti del proprio corredo genetico, raggiungendo così la pienezza della sua forma e il traguardo dello sviluppo stesso. Per dirla più chiaramente: in natura non esiste uno sviluppo infinito, perché nel momento in cui l’evoluzione fisica consegue il suo scopo – ovvero quando l’organismo è pienamente formato –, cessa anche il processo di sviluppo. Nel caso dell’essere umano, ad esempio, possiamo parlare dello sviluppo di un bambino o di un ragazzo, ma non dello sviluppo di un adulto.
Rispetto alla sua predicazione biologica, una prima trasformazione di questo termine avviene nel 1768 ad opera dello studioso conservatore Justus Moser, che usa la parola Entwicklung (sviluppo) per spiegare il graduale processo di cambiamento cui è sottoposta quotidianamente la società. L’applicazione di un tale concetto alla società umana è tutt’altro che neutra e comporta significativi stravolgimenti semantici. Una parola, infatti, è proprio quella parola in virtù del significato che esprime, e il significato è ciò che consente a un dato termine di svelare il senso di una cosa e di dare quindi corpo al suo scopo. Se cambio lo scopo, ovvero se muto l’orizzonte culturale o linguistico di riferimento, finisco fatalmente per trasformare il termine e quindi anche il suo significato.
Per questo motivo, il passaggio dal concetto di sviluppo biologico (definito e regolato da un ordine genetico) a quello di sviluppo sociale (privo di limiti intrinseci e quindi, nel corso della storia, ipoteticamente infinito) comporta di fatto una trasformazione dell’orizzonte semantico entro cui si rende possibile la pensabilità e la dicibilità dello sviluppo stesso, che con Moser diventa il metro e la misura della trasformazione della società.
Nel XX secolo il termine in questione subisce un’ulteriore torsione semantica, in senso uniformante e violento, finendo per significare esclusivamente «crescita economica». Ogni società, ogni popolo, ogni comunità viene valutata e studiata sulla base della sua capacità di produrre e scambiare merci a ritmo sempre più sostenuto. Il passo decisivo in questa direzione lo compie il presidente americano Harry Truman, che per la prima volta, nel gennaio del 1949, definisce «sottosviluppati» quei popoli con un reddito pro-capite inferiore a quello dei paesi a capitalismo avanzato.
Da quel momento, oltre due miliardi di persone smettono immediatamente di essere ciò che erano da sempre, con tutte le loro peculiarità, le molteplici tradizioni e le storie dei padri che li avevano resi tali, e cominciano a percepirsi in controluce, ovvero colgono la propria esistenza in funzione dei popoli cosiddetti ricchi, progrediti, avanzati: in una parola, sviluppati. E questi ultimi, non riuscendo ad immaginare neppure la possibilità di instaurare rapporti sociali e comunitari non economici, finiscono ben presto per pensarsi quale faro e modello unico della civiltà. Di conseguenza, tutte le loro iniziative volte ad aiutare le società «sottosviluppate» ad uscire dalla povertà – o meglio, da quella che ritenevano essere la povertà – diventano politiche per favorire lo sviluppo: che nel linguaggio del potere economico significa, stimolare la crescita industriale e i mercati.
Queste azioni pseudo-umanitarie si fondano tutt’ora sulla convinzione irremovibile che i sistemi economici basati sulla crescita del pil configurino il primo mondo, e siano quindi superiori e preferibili agli altri: i popoli che non sono in grado di competere, di incrementare i propri mercati e di sviluppare continuamente l’economia appaiono, a seconda delle condizioni, «in via di sviluppo» o «sottosviluppati», ovvero paesi del secondo o del terzo mondo.
Con il dilagare dell’ideologia tecnologico-capitalista, la parabola semantica si compie così in modo definitivo. Nel passaggio dall’orizzonte biologico «misurato» a quello sociale, politico ed economico «smisurato», lo sviluppo diventa irrimediabilmente sinonimo di crescita, di progresso e di innovazione senza fine. Per questo motivo, parlare oggi di «sviluppo sostenibile», nella speranza di recuperare il concetto in ottica ambientalista, è un esercizio vano, che serve solo a tacitare la propria coscienza, senza giungere al fondo delle questioni. D’altronde se lo sviluppo non è più separabile dalla crescita economica, e se questa stessa crescita continua ad essere lo scopo ultimo di tutte le attività energivore e produttive, lo «sviluppo sostenibile» non è altro che una locuzione ossimorica. Chi ne parla, prova forse a guidare il treno in folle corsa, su cui stiamo viaggiando, con la speranza non di fermarlo – sa che non può farlo –, ma semplicemente di rallentare lo schianto. La morte è comunque certa, ma ci si illude di averla per ora rimandata.
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