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Guarigione s.f., da guarire: il termine deriva dal germanico tramite altre lingue, quali l’antico francese guarir (giunto poi nella forma attuale di guérir), il francone *warjan, l’antico alto tedesco werian (che si presenta nel tedesco attuale come wehren, ‘impedire’, da cui Wehr, che vuol dire ‘difesa’), e l’inglese to ware ‘guardarsi da’ e ‘prender cura’, intesa come proteggersi da ciò che provoca dolore. Sulla stessa scia si pone anche l’antico spagnolo e portoghese guarir, oggi nella forma di guarecer.
Sorprende non poco constatare che l’antico warjan, da cui appunto guarire, significa mettere al riparo, tenere lontano, difendere, ma anche impedire che qualcosa di malevolo avvenga, guardarsi dalle avversità e dai rischi. L’atto del guarire, anticamente, serviva a salvare, proteggere, difendere e preservare l’uomo, mentre viene oggi usato unicamente in un senso più limitato e stravolto rispetto all’originale, quale atto che consente di ristabilire il benessere psicofisico in un corpo sofferente e ammalato.
Si passa quindi da una condizione originaria di prevenzione, a una mera lotta contro il male. Questa torsione semantica ha trasformato la guarigione in un processo di recupero della salute perduta, dal momento che guarisce solo chi si libera dal male e torna alla sua condizione originaria.
La guarigione finisce per ridursi dunque a una lotta contro la malattia conclamata, ed è però in tal senso, e a tutti gli effetti, un atto di guerra con cui s’intende combattere un processo naturale: perché la malattia – ce lo dimentichiamo troppo spesso – è parte della vita, e quando non è mortale o particolarmente grave, si risolve per conto suo. Ma la società dell’efficienza in cui viviamo non tollera cadute o debolezze. Per questo motivo è necessario essere sempre prestanti e dinamici, è indispensabile ristabilirsi il più in fretta possibile per tornare nel circo quotidiano a svolgere il proprio ruolo. Quel ruolo che spesso è la causa della malattia da cui pretenderemmo di ‘guarire’ ingurgitando, farmaci sempre più potenti e costosi.
È interessante notare come la ‘cultura della sanità e della prestanza fisica’ ha provocato l’ampliamento del concetto di malattia anche a condizioni che fino a qualche decennio fa non venivano trattate farmacologicamente. Nella società del lavoro e della competizione diventa patologico tutto ciò che non consente all’uomo di svolgere al meglio la sua vita indaffarata. Un semplice raffreddore, un abbassamento di voce, una banale sindrome influenzale o un leggero mal di testa, trattati in passato con qualche ora di sonno e di riposo sotto le coperte, diventano fastidiose infermità di cui liberarsi velocemente. Perché là fuori, nel mondo, non c’è spazio per chi non è in grado di svolgere al meglio il suo compito, e nessuno può permettersi di poltrire sotto le lenzuola, in attesa di recuperare la salute.
L’uomo contemporaneo vive così per intero la torsione del termine guarigione che brandisce come una spada contro la malattia, quando invece potrebbe rispettarne l’etimologia, limitandosi a preservare il proprio corpo dal male e dai rischi di una vita disordinata, prendendosi cura di sé, dell’ambiente in cui vive e delle persone che gli sono accanto.
Se volesse davvero guarire nel senso espresso dalla voce warjan, dovrebbe smetterla di correre a perdifiato per scalare la piramide sociale. E quando sarà più tranquillo e in equilibrio con l’ambiente circostante, potrà persino sedersi insieme ai suoi simili, sul far della sera, a guardare il sole scendere dietro le montagne, prendendosi cura davvero di sé e degli altri. E quel prendersi cura è precisamente quel guarire a cui noi tutti aneliamo con struggente passione.
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