11 Giu 2015

Villano

Scritto da: Alessandro Pertosa

Villano, agg. e s.m. [dal latino tardo villanus], nel suo senso etimologico più genuino è un termine che definisce e […]

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Villano, agg. e s.m. [dal latino tardo villanus], nel suo senso etimologico più genuino è un termine che definisce e qualifica il contadino che abita una «proprietà di campagna», un «fondo agricolo» o una «fattoria» chiamata villa (da villa-ae). Negli ultimi secoli, e in particolar modo a seguito della rivoluzione industriale, il termine villano ha subito una significativa torsione semantica, e viene ormai impiegato, nell’uso comune, per qualificare o indicare negativamente l’uomo screanzato, zotico, rozzo, crudele, scortese, incivile, maleducato e spesso ignorante.

 

 

farm-painting

Per la cultura contemporanea, allora, il villano è un essere abietto, incapace di instaurare buone relazioni, digiuno della benché minima nozione civile e delle buone maniere, tanto da non essere minimamente capace di vivere secondo i canoni morali, civili ed estetici del tempo presente. Tempo, questo, della società metropolitana, in cui tutto scorre, con la massima rapidità possibile, in vista della produzione e del consumo senza fine delle merci più svariate. Questa torsione semantica è dovuta al pregiudizio violento e supponente della civiltà urbana, che percepisce la città quale unico ambito di innovazione e di progresso.

 

Non è un caso, infatti, che il linguaggio deformato dalla frenesia industrialista qualifichi con l’aggettivo «urbano» una persona distinta e fine, che si ritiene abbia modi garbati, cortesi, gentili, che sappia esprimersi correttamente, che rispetti impeccabilmente i costumi del tempo presente, e che si distingua dall’uomo dei campi aduso – ma, si badi, è questo un pregiudizio infondato – alle villanie. In tale ottica, la metropoli assurge a luogo di elevazione morale, e quindi primariamente culturale, in cui si rende possibile, e soprattutto appetibile, l’affrancamento dalla «miseria» contadina. Con buona dose di supponenza, si è finito così per contrapporre gli abitanti delle campagne, considerati retrogradi e passatisti, a quelli delle città, che rappresenterebbero la gloriosa avanguardia del mondo occidentale.

 

Il fondamento di questo pregiudizio trova, probabilmente, la sua giustificazione nel fatto che la società industriale, centrando la sua «fortuna» ideologica sul consumo sempre crescente di merci, non ha avuto alcuna possibilità di trovare degli spazi vitali, né tanto meno di radicarsi all’interno della società agricola, da sempre vocata ad un’economia armonica di sussistenza, e quindi poco propensa ad assoggettarsi alla tirannia dello sviluppo e alla cultura della mercificazione progressiva di ogni bene. Pertanto, preso atto dell’impossibilità di penetrare le strette maglie della comunità rurale, all’homo industrialis non restava altro da fare che tentare di disarticolare il mondo agricolo – a cui era legato sin dalla notte dei tempi –, costringendolo alla resa.

 

Per ottenere il risultato tanto agognato, mentre si sferrava l’attacco sul fronte economico, si è pensato bene di mettere semanticamente al bando l’immaginario comune della cultura contadina, qualificandola con aggettivi peggiorativi o usando quotidianamente sostantivi e aggettivi quali contadino, villano, rustico, campagnolo o campestre con intenti oltraggiosi e sprezzanti. Ma nonostante l’homo industrialis, ritenuto così civile e «urbanizzato», sia riuscito nell’intento di ghettizzare il mondo agricolo e la cultura che lo rappresentava, il richiamo della natura e il desiderio di respirare aria pura, immerso nel verde, nei boschi e nelle trame inesauste della terra, da cui scaturisce la vita, lo hanno spinto a idealizzare e a riconsiderare alcuni aspetti della cultura rurale, distorta però ben presto ad uso e consumo della razionalità industriale.

 

In questo processo di acquisizione di alcune realtà del mondo contadino, si è mantenuta infatti la debita distanza dal villano (perché non ci si voleva appiattire sul prototipo umano che rifiutava in modo ostinato la civiltà del progresso), ma ci si è appropriati della sua abitazione, la villa, che in questo processo di mistificazione ha finito per non significare più «casa di campagna» ma «abitazione signorile circondata da un parco».

 

Ciò ha comportato, in campo urbanistico, che le strutture abitative ben curate e ornate di fregi siano diventate villini, con tutte le possibili varianti semantiche di villetta, villettina, villina, villone. La società industriale ha così preso le distanze solo dal prototipo umano che abitava la campagna, ovvero il villano, il contadino, ma non dalla sua abitazione, la villa, né tanto meno dal villaggio, che da centro rurale abitato da retrogradi reazionari, si è trasformato in un gruppo di abitazioni progettato con un certo ordine, spesso in ottica urbana, per rispondere ai bisogni di una data categoria di abitanti.

 

Da qui ha avuto origine una serie variegata di villaggi: da quello operaio al giornalistico, dal villaggio olimpico a quello sportivo, passando per il villaggio commerciale, turistico, scolastico o universitario. Ma non è ancora tutto, perché in vista di una progressiva mercificazione dei bisogni, il villaggio è diventato persino un termine appetibile in funzione vacanziera. Chi, infatti, ha voglia di togliersi qualche sfizio, e soprattutto ne ha facoltà economica, può andarsene in «villeggiatura», diventando così un «villeggiante». Il tutto condito da animazioni, intrattenimento, giochi e servizi di varia natura acquistabili all’interno di un luminosissimo «villaggio vacanze».

 

Da ciò, appare quindi con chiarezza, che tra la ghettizzazione del villano e la glorificazione consumistica del villaggio si esprime tutta la violenza dispotica di un mondo che ha smarrito il legame ancestrale con la natura, e in particole con l’agricoltura, finendo così per perdere il senso profondo del vivere in modo autenticamente umano. La meccanizzazione del lavoro e la mercificazione della vita hanno indotto l’homo indutrialis a pensare alla terra non come a una creatura vivente con cui interagire, ma in funzione esclusivamente imprenditoriale (il contadino sopravvissuto al mercato è diventato, infatti un «imprenditore agricolo»).

 

Un tale atteggiamento ha destrutturato completamente la relazione fra l’uomo e il contesto in cui vive. Gli urbanizzati, gli uomini «civili», coloro che guardano i villani dall’alto in basso, non sono ormai più in grado di cogliere il legame irrinunciabile che ogni essere umano costituisce, da sempre, con la terra. Se solo riuscissero a intuire, come suggerisce Wendell Berry, che mangiare è un atto agricolo, ripenserebbero interamente allo stile urbano, di cui vanno molto orgogliosi, demercificandolo. Purtroppo, però, non ne sono capaci, e quel desiderio di tornare alla terra, quell’insopprimibile amore che lega ogni uomo alle profondità recondite della natura, la trasformano in manifestazione della potenza economica, imponendo a degli «oggetti urbani», definiti tecnicamente «unità abitative», nomi che non gli appartengono.

 

È questo il desiderio di ricreare, qui e ora, la perfezione perduta; è la passione amorosa per quella vita che si vorrebbe fare, ma che non si ha il coraggio di fare, perché non è socialmente accettata; è la tensione verso un ordine smarrito che spinge l’élite a ricollocare semanticamente il proprio linguaggio all’interno di un orizzonte espressivo rurale di cui non sembra che l’uomo possa fare a meno.

 

Per quale altro motivo, d’altronde, si dovrebbe chiamare villa una casa che non è una fattoria, non è abitata da contadini e non rappresenta il centro di relazioni agricole, basate sulla produzione naturale e sul rispetto dei cicli biologici? Se nelle ville finiscono per abitarci gli uomini della finanza planetaria, i politici, gli industriali, i chirurghi, i farmacisti, i notai e i molti altri rappresentanti dell’élite, forse le ville non sono più ville, e nella corsa ad incrementare il dominio dell’uomo sull’uomo, diventano la tomba e non la culla di quella natura che nutrirebbe tutti, se solo glielo lasciassimo fare.

 

 

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