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Modesto, agg. [dal latino modestus], qualifica etimologicamente la condizione dell’uomo moderato, calmo, ragionevole, mite; è modesto chi onora, venera e conserva con scrupolo l’ambiente in cui si trova; chi opera con la giusta misura; chi, rispettando il limite naturale che lo costituisce, agisce in modo corretto. E proprio dal sostantivo modus – nel suo significato di misura e limite – deriva l’aggettivo modestus. Il modesto è allora un uomo a modo che ha il senso della proporzione (pro modo, dicevano i latini) e del limite; è un uomo che sa riconoscere la misura, gli spazi ordinati ed è capace di scandire il tempo secondo un giusto ritmo.
L’aggettivo modestus esprime quindi, in origine, una positività qualitativa che scompare del tutto, in questi ultimi secoli, dall’immaginario occidentale, che ha rimodulato il termine in senso principalmente negativo: un intellettuale è oggi considerato modesto quando il suo pensiero non esprime una particolare profondità. Un giocatore è modesto quando non è abile tecnicamente. Una persona è di bellezza modesta quando non risulta piacente.
Questa trasformazione semantica è avvenuta, con precisione, nel momento in cui l’umanità ha cominciato a credere di poter leggere davvero la storia in senso progressivo e lineare, come una fuga continua dalla barbarie reazionaria della società incivile, superstiziosa e rozza dell’era preindustriale, verso la gloria della ragione e dell’innovazione tecnologica; verso quella gloria che tende al meglio, chiamato progresso, che non ha né fine né misura, e che non pone argini alla sua pretesa di oltrepassare tutti i limiti che gli si frappongono davanti.
Se restiamo al significato etimologico di modestus, notiamo come il bisogno di rincorrere continuamente una crescita, un incremento, un progresso di qualcosa, superando qualsiasi ostacolo e non tenendo in minimo conto il limite costitutivo della nostra condizione ontologica, si riveli come un bisogno im-modesto, s-modato, s-misurato; è un bisogno che, nella pretesa di oltrepassare il confine estremo dell’esistenza, perde definitivamente il contatto col desiderio. Si desidera, infatti, un qualcosa che non si ha ancora, perché attualmente rispetto a noi e alla nostra attuale collocazione, è aldilà: ma è pur sempre qualcosa a cui si pensa di poter tendere senza pretendere di possederlo. Si desidera un amore lontano che è tale proprio perché il limite della finitezza umana rende impossibile essere ovunque. Si nutre nostalgia per un ritorno in un luogo da cui ci si è allontanati e in cui si vorrebbe essere, ma non si è, perché appunto si è altrove.
Il limite e la misura della possibilità umana rappresentano l’orizzonte entro cui si rende pensabile e possibile il desiderio, che anela al superamento continuo di ciò che si sa bene non può mai essere colto né oltrepassato del tutto. Chi desidera, allora, è in realtà modesto, nel senso che coglie la sua caratterizzazione particolare, conosce la misura dei suoi gesti e delle sue passioni, sa di avere davanti a sé un limite invalicabile, che gli mostra il confine che lo separa dall’utopia cui non si giunge mai, eppure non demorde: continua a corrergli incontro con l’intento di superarlo questo confine, ma è pur sempre consapevole che il compito è infinito.
Nell’esprimere un desiderio, l’uomo manifesta implicitamente la consapevolezza per l’irrimediabilità di quella mancanza che desidera in modo struggente. Vorrebbe stringersela attorno e accarezzare ciò che non c’è, ma – nei pressi del divenire – l’approdo è altrove, è sempre un passo avanti al presente e svanisce all’orizzonte: l’approdo, potremmo dire, nel suo porsi fuori dal tempo come meta conseguita, esprime una sua staticità immediata ed eterna; esso è quindi immodesto, ovvero è al di là della misura, è oltre l’umana possibilità di darne ragioni, di razionalizzarlo, di coglierlo come un oggetto (ob-jectum) «che sta davanti» a noi.
Quando si pecca d’im-modestia e si presume di poter operare oltre l’estremo, quando si pensa di essere a due passi dalla meta im-modesta (ed è immodesta perché infinita e fuori misura), si vive la miseria del bisogno abissale e smisurato. Ma il limite, che piaccia o meno, riappare ben presto come insuperato, e quella stessa meta che si pretendeva conseguita e che si era sicuri di possedere già, si sottrae al dominio e scarta a nessun dove. Così tutto torna a mancare di nuovo, e a quel punto l’immodesto si strazia finendo nel gorgo della follia. Si potrebbe dire che proprio l’esistenza di un limite invalicabile e il desiderio continuo di oltrepassarlo sono le due colonne portanti su cui si regge l’umanità felice, che è tale proprio perché ha i modi, la misura e la modestia. Ma è bene tener presente che la possibilità di diventare un bisognoso non desiderante è sempre dietro l’angolo, per chiunque. E quando il concetto di limite e il desiderio vengono meno, l’unità della persona misurata si squarcia in frammenti im-modesti e patologici, che alimentano la società dei bisogni in cui ci troviamo a vivere.
Il bisogno, diversamente dal desiderio, ha una vita in apparenza breve. Chi vuole comprare un oggetto vede tra sé e la merce un limite, o un insieme di limiti – il costo, la distanza da percorrere per acquistarlo, il tempo da impiegare – che la tecnica gli mostra come superabili. Il problema del costo viene oltrepassato dal denaro ottenuto lavorando; la distanza non è più un ostacolo insormontabile da quando si ha a disposizione un mezzo di trasporto, acquistato sempre con quel salario conferito in cambio del proprio lavoro, ovvero della propria vita; e il tempo da impiegare è giusto quello spicchio d’esistenza che resta a chi per soddisfare i suoi bisogni deve schiantarsi di fatica ogni giorno per ottenere quel denaro con cui acquistare le merci di cui avverte la mancanza.
Il dramma è che il bisogno, ancorché soddisfatto, non muore mai, ma si trasforma di continuo e diventa bisogno di qualcos’altro: bisogno di strumenti ancora più all’avanguardia, innovativi, e sempre meno modesti. Il bisognoso scorge, quindi, altri limiti davanti a sé che considera superabili: ma se ogni limite è superabile, il limite smette di essere tale e diventa solo uno scarto momentaneo tra il bisogno e l’oggetto che si vorrebbe possedere. Nel cuore di chi nutre un tal «bisogno», si spalanca una voragine smisurata, che l’ossessione compulsiva all’acquisto non riesce a colmare: anzi, come in un processo di continua erosione interiore, questi più che consumista appare consumato dalla merce.
Il vero consumatore, infatti, è colui che conosce la misura, sa essere modesto ed è capace cogliere la misura della sua esistenza: il consumatore è consapevole di essere altro rispetto alla merce e sa di non potersi identificare con ciò che compra. Invece il prototipo umano che emerge dalla società dei bisogni crede di poter colmare le sue mancanze e il proprio scarto ontologico vivendo la s-modatezza e ingurgitando qualunque oggetto gli si presenti davanti. Non è un caso che la bulimia sia un disturbo dell’alimentazione proprio delle società industriali. L’uomo dei bisogni ingurgita merce per poi vomitarla – consumarla – ed essere così pronto – svuotato – per acquistarne ancora, in un processo continuo che non può, e non deve, arrestarsi.
La società dei bisogni tende dunque a denigrare ciò che ha un modus, ciò che esprime una misura, un ordine, e che è quindi modesto: perché nello spazio illimitato della dismisura nulla ha più modus e nulla può più essere considerato modesto. O meglio: il modesto, che rimanda in modo esplicito al senso del limite e della misura, deve venire bandito dall’immaginario sociale, ostracizzato, messo ai margini e considerato quale aggettivo peggiorativo. La stessa idea che il positivo sia meglio del negativo; che ciò che c’è, qui e ora, è meglio di ciò che non c’è; che il nuovo è preferibile al vecchio, si fonda sull’ideologia progressista della storia, che annuncia al mondo il superamento delle colonne d’Ercole, e la definitiva uscita dall’età dell’infanzia (che vale meno, perché viene prima) e della follia superstiziosa.
E agli occhi di un «bisognoso» senza più desideri, la follia consisterebbe per l’appunto nella capacità di saper riconoscere il limite ammettendone l’alterità: questa constatazione sarebbe una follia retrograda e reazionaria, perché l’evoluzione umana, il progresso economico e l’innovazione tecnica stanno lì a mostrare che i limiti ci sono proprio per essere superati. Ma per essere superati non idealmente, come avviene nel desiderio o nell’utopia, bensì in atto. Si tratta di capire, però, che quando si crede di essere oltre qualsiasi limite, o di poter tendere al superamento di qualsiasi limite, si finisce per non avere più alcun limite. A quel punto l’utopia si fa distopia, ch’è un altro modo di dire l’ideologia smodata, che crede davvero sia possibile crescere, svilupparsi e progredire all’infinito.
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