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Compassione, s.f. [dal latino compassio], deriva dal verbo compatior –eris –passum sum pati ed esprime generalmente il senso del patire con, insieme, in compagnia di; compatire è l’atto con cui si partecipa alle sofferenze altrui; è il sentimento di pietà nutrito verso chi è infelice; è un fare le cose con lo stesso pathos, è un tentativo di aiutarsi reciprocamente, di sopportare, di tollerare le avversità nella relazione fraterna.
Ma non è tutto, perché in greco pathos vuol dire anche esperienza, prova, piacere, passione, emozione. In tal caso, allora, la compassione è anche un modo per esperire insieme qualcosa, per provare e vivere un piacere relazionale, è l’atto con cui si cerca di condividere un sentimento amoroso, un’emozione, una gioia.
Tutto ciò avviene perché quando ci si compatisce, si stabilisce una compatibilità fra le persone che compartecipano al pathos, sorge un legame saldo fra coloro che decidono di con-dividere il peso della sofferenza o della gioia, della passione o dell’amore, e che diventano quindi reciprocamente sim-patici.
La simpatia è infatti quell’inclinazione istintiva che attrae una persona ad un’altra. Quando si mette in atto una relazione di sim-patia si è anche capaci di com-patirsi a vicenda e ci si riconosce come com-patibili. Da questo punto di vista, la compatibilità è la condizione per compatirsi, per amarsi gioiosamente, per vivere l’emozione nella stessa carne, nel medesimo essere, e per vivere simpaticamente il rapporto comunitario.
Va notato che la relazione che si costituisce è pienamente conviviale e amorevole solo se è orizzontale, ovvero solo se nessuno dei contraenti il rapporto esercita sugli altri il suo dominio dispotico. Questa considerazione mi sembra molto interessante soprattutto alla luce della torsione semantica che il termine ha subito nel corso del tempo. Perché rispetto al senso originario, oggi per compassione si intende unicamente l’atto sprezzante di commiserazione verso cose biasimevoli, verso persone ritenute inette, incapaci o inutili al contesto.
Nella società della violenza dispotica, allora, l’atto compassionevole non è più orizzontale, ma si svolge dall’alto verso il basso. Chi compatisce lo fa osservando, da un piedistallo, il misero che gli bacia i piedi, che gli chiede aiuto o che invoca pietà.
Per cogliere la profondità di questa trasformazione semantica, e a conferma di quanto sostenuto, è utile notare che il vocabolario italiano-latino propone di tradurre il sostantivo compassione non con compassio, bensì con miseratio-onis o con misericordia-ae.
La miseratio latina è la pietà, la misericordia, la clemenza. Ma sono questi i sentimenti che esprimono surrettiziamente la violenza, la pressione dispotica. Perché la misericordia viene chiesta dal misero al potente, e quest’ultimo quando la concede diventa misericordioso. Ha pietà chi dall’alto della sua posizione non infierisce sul disgraziato, chi può decidere sulle sorti dei sottomessi, chi ha potere di vita o di morte.
Nel passaggio dalla lingua latina a quella italiana, allora, il termine compassione ha subito innanzitutto una limitazione semantica. Perché la riduzione del termine a una relazione verticale, ovvero a pietà e misericordia, ha finito per espungere i significati di gioia, amore, esperienza, che non possono in alcun modo venire calati dall’alto. Quando ci si ama, si gioisce, si fa esperienza di qualcosa, si opera in accordo e in armonia, e la relazione che si costituisce fra le persone è conviviale e comunitaria.
Nessuno potrebbe amare una persona dall’alto in basso, né esprimergli un sentimento di gioia schiacciandolo, facendolo suo, dominandolo. L’amore e la gioia sono davvero tali solo se c’è corresponsione reciproca nella relazione compassionevole. Solo quando si ama e si gioisce a vicenda si può dire di abitare simpaticamente i luoghi della compassione.
A ciò si aggiunga che la riduzione semantica di cui si è detto, ha favorito la trasformazione del termine compassione in un senso del tutto violento: dal testimoniare un rapporto di compatibilità amorevole e conviviale fra le persone, ha finito per significare l’atto con cui chi è in posizione di supremazia concede qualcosa allo sventurato, al misero o a chi si trova nei gradini più bassi della scala sociale.
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