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In Italia i costi diretti e indiretti della violenza domestica sulle donne ammontano a circa quattordici miliardi l’anno. Un dato così esteso da coinvolgere la vittima, il suo nucleo familiare e la sua comunità impedendone il normale funzionamento. Eppure si investe poco o pochissimo in prevenzione. E oggi sei centri antiviolenza sono a rischio chiusura.
Dopo un lungo periodo di analisi, ricerca e raccolta di storie e testimonianze, la cooperativa romana Be Free, da sempre al fianco delle donne vittime di violenza, si è accorta che uno dei luoghi cruciali dove intercettare e sostenere le donne erano i pronti soccorsi. Per questo Be Free dal 2009 opera all’interno dell’ospedale San Camillo Forlanini di Roma, attraverso uno sportello aperto 24 ore su 24 che accoglie le donne che si sono rivolte al pronto soccorso.
“Molte donne che arrivano al pronto soccorso non vogliono denunciare la violenza subita” spiega Oria Gargano, presidente di Be Free “e non siamo certo noi a dire loro di denunciare il proprio violentatore, ma gli facciamo presente che esiste un servizio all’interno dell’ospedale per le donne vittime di violenza, e questo è già di per sé terapeutico e rasserenante”. In sei anni di lavoro Be Free ha affiancato circa duemila donne, cifra importante ma che non convince le istituzioni a finanziare lo sportello.
Oggi il servizio ancora esiste grazie a una fondazione privata, la We world, che sosterrà il progetto sino a luglio 2015, nessuna certezza per il dopo. Come lo sportello h24 del San Camillo, così altri cinque centri antiviolenza del sud Italia sono a rischio chiusura. In questi giorni una carovana dell’associazione Pangea è in visita alle cinque città che ospitano questi centri per chiedere che non siano chiusi e raccogliere fondi da destinargli.
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