Io faccio così #58 – Giuseppe Li Rosi: in Sicilia i semi antichi per combattere l’agri-business
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Catania - Sintetizzato dal chimico tedesco Fritz Haber negli anni venti, utilizzato nei campi di concentramento tedeschi per sterminare i prigionieri negli anni quaranta, impiegato in Vietnam per stanare i vietcong negli anni settanta, oggi l’acido cianidrico è nei nostri campi, sugli scaffali dei supermercati, sulle nostre tavole. È il paradosso dell’agri-industria, per la quale la velocità di trasformazione dei prodotti e la massimizzazione delle rese contano più di ogni cosa, anche della salute di chi quel cibo lo mangia.
Nello scenario molto più confortante e accogliente della calda Sicilia, culla della biodiversità italiana, incontriamo Giuseppe Li Rosi, agricoltore e custode del tesoro dell’agricoltura tradizionale: i semi. «Le multinazionali hanno capito che mettere le mani sui diritti dei semi è una mossa strategica – ci spiega Giuseppe – e attraverso tali diritti possono controllare economia, salute e possibilità di evoluzione di qualsiasi popolo». Mentre parla, alle sue spalle si muove placidamente un mare verde smeraldo: è il campo di germoplasma della Stazione Sperimentale di Granicoltura, dove viene conservata parte dei semi autoctoni siciliani a rischio di estinzione. «La Stazione – racconta – nasce nel 1927 e oggi si dedica alla conservazione di questi frumenti, che rappresentano una specie di banca dati alla quale attingere in caso di malattie dei nostri grani moderni, modificati attraverso una mutagenesi». Si tratta di un patrimonio importantissimo per continuare ad avere la capacità di produrre il cibo in Sicilia, ma ovunque è vitale conservare la biodiversità locale, frutto dell’esperienza millenaria della comunità rurale.
Per anni l’agribusiness ha manipolato le colture conformandole alle proprie esigenze. Questo ha trasformato due elementi basilari per la vita dell’uomo – il cibo e le medicine – nei suoi più grandi nemici. «Prendiamo il caso del glutine», spiega Giuseppe. « Il frumento è stato “modificato” per migliorare la pastificazione, per elevarne la temperatura di essiccazione e accorciare i tempi di produzione. Per fare questo, è stato aumentato l’indice di glutine, che misura la durezza o l’elasticità del glutine. La ricerca mira a creare frumenti con un indice di glutine alto, vicino al 100, ottimi per l’industria. I frumenti con basso indice di glutine sono classificati come scarsi. Ma un alimento con un indice di glutine ottimo il nostro intestino non lo riconosce e non lo digerisce».
Giuseppe è legato da sempre alla campagna siciliana, dov’è nato e cresciuto e dove da anni porta avanti un percorso di reintroduzione delle sementi originarie. Una battaglia che non si limita all’ambito agricolo, ma sconfina in quello legale e culturale. «Ho cominciato a piantare poco a poco i semi antichi, fino a quando tutta la porzione dell’azienda coltivata a cereali, circa 100 ettari, è stata convertita con grani autoctoni siciliani. Questa scelta è stata fatta due anni fa. Quando ho cominciato a coltivare questi grani l’ho dovuto fare di nascosto, perché se li semini perdi i contributi europei, legati solo all’utilizzo di semi certificati, appartenenti a multinazionali o sementieri». Alle difficoltà burocratiche si è aggiunto lo scetticismo degli altri agricoltori, inizialmente ostili e oggi indifferenti agli sforzi di Giuseppe e della sua azienda, Terre Frumentarie. Anche la circolazione dei semi è rigidamente normata: «Per legge non si possono comprare i semi da un’altra azienda agricola. Ma tutti i semi venduti dall’industria sementiera sono nati con la mutagenesi indotta, contengono glutini che non vengono riconosciuti dal nostro intestino, hanno bisogno di nitrato d’ammonio sennò non producono niente. Oggi per fortuna alle aziende biologiche è permesso autoriprodursi il seme, però non si può comprarlo né venderlo. Dalla Stazione di Granicoltura si può prendere solo qualche piccola parcella di semi. In realtà, se venissero applicati alcuni articoli della legge sementiera italiana, potremmo scambiarci semi fra aziende, ma non succederà mai. C’è un trattato FAO sul traffico di semi che l’Italia ha recepito, senza però fare le legge applicativa. Nel resto d’Europa la situazione è molto simile. Il problema è che chi fa le leggi in campagna non c’è mai stato».
Dicevamo che è anche una battaglia culturale. «È così: hanno fatto perdere la dignità all’agricoltore e far scattare in lui la molla della rivalsa. Così ha cercato di far studiare i figli, di ingentilirsi, di ammodernarsi, di applicare le tecnologie. Per questo è stato facile convincerlo a utilizzare tecniche che facilitano la coltivazione. Tutta l’agricoltura è stata asservita all’industria: oggi è un atto illegale comprare semi da chi non è autorizzato a venderli. Bisogna poi comprare il fosfato, il nitrato, il diserbante e il fungicida. E quando si vende, la materia prima è destinata solo all’industria».
Ciononostante, in questo periodo di forte crisi, Giuseppe è soddisfatto dell’andamento economico di Terre Frumentarie. La svolta è arrivata quando ha deciso di sottrarsi al giogo dell’agricoltura industriale: «Oggi le mie prospettive sono molto migliori rispetto a qualche anno fa, quando producevo frumento e lo vendevo alle aziende di trasformazione. Sono entrato in un indotto che si rifornisce con materie naturali, non geneticamente modificate. Oggi chi acquista cibo è più consapevole, più attento alla qualità, più esigente. Per questo il mercato del biologico è in grande crescita». Terre e Tradizioni è il secondo marchio che Giuseppe ha creato, che si occupa della trasformazione e della vendita dei prodotti dell’azienda agricola.
Ci sono sempre più persone che si fanno delle domande, c’è più movimento, se ne parla di più sui mass media. Cominciamo ad avere voce in capitolo. Il mercato più fertile per il biologico rimane quello del nord Italia, ma anche la Sicilia comincia a svegliarsi: aumentano i negozi bio, i mercatini, i punti di vendita diretta. «La Sicilia ha un patrimonio genetico più grande di tutte le altre regioni messe insieme», conclude Giuseppe. La missione dunque è tutelarlo e farlo prosperare, affinché diventi parte integrante dell’economia e della cultura dell’Isola.
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