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Mercoledì avevo un giorno di riposo dal mio principale compito di maestra a “L’asilo nel bosco”, ho deciso così di andare a trovare all’Idroscalo di Ostia Lorenzo, Pietro e Danilo, maestri della Community School che hanno deciso di dedicarsi ai ragazzi in abbandono scolastico.
Subito la giornata si è delineata in tonalità di grigio su grigio, grigio del cielo, grigio del cemento, dei palazzi e dei volti che si aggiravano a Piazza Gasparri in quell’insolita ora del mattino. Subitaneamente ho capito di aver vissuto una vita protetta, cresciuta in Umbria lontano da quelle voci roche, da quelle ombre non più facce, scavate da ferite a me sconosciute. Il tempo di prendersi un caffè mi ha raccontato più di anni di Storia.
Ho conosciuto sette ragazzi splendidi, irrefrenabili, incontenibili. Ho visto all’opera la quieta presenza di Pietro, l’ironia e la competenza di Lorenzo e sopra a tutti l’instancabile sguardo di Danilo, che paziente come un angelo custode su di loro veglia e protegge.
Sei ore sono passate in fretta, alternate fra attimi di matematica e fughe in corridoio, fra continui riarrangiamenti della struttura in classe e con i ragazzi, con sprazzi di colore e magia innanzi all’arte subito inghiottiti da un vortice tempestoso che ha portato la distruzione dei disegni appena conclusi, con schizzi di acquarello finali su finestra, banchi, pavimento, vestiti.
Sono uscita da lì scossa, con un miscuglio di emozioni nello stomaco. Quello stormire pian piano nei giorni si è acquietato, sedimentandosi e facendo emergere degli elementi sempre più distinti.
Ho pensato che sì, quello che ci vuole è un miracolo e che questo miracolo si chiama comunità. Ho visto l’impegno e la volontà dei maestri, la fiducia negli occhi dei ragazzi, il tentativo costante di Danilo e degli altri di trasmettere loro qualcosa, qualcosa di sensato, ponendosi come baluardo prima del vuoto, prima che vadano a rinforzare l’esercito di ombre che si aggira in zona. Perché siamo in tempo. Perché quella vivacità fuori controllo che hanno ci dice che ancora sono vivi.
Ragazzi di 13, 14, 15, 16 anni, alcuni di loro nei visi poco più che bambini.
L’Italia cambia se cambiamo noi e qualcosa dentro di me è scattato per non tornare più indietro. Ho pensato a quanto ho ricevuto nella vita, a tutte le persone amiche che sin da piccola mi hanno voluto bene, che mi hanno accompagnata, curata, riempita di attenzioni mentre mi insegnavano a fare le cose, a cucinare, zappare, leggere, seminare, pensare, raccontare storie. Ho pensato ai sapori, agli odori, alla bellezza della natura e degli incontri in cui ho avuto la fortuna di imbattermi, ai viaggi.
Sono approdata nella vita adulta da un quarto d’ora circa ed inizio a sentirmi nella posizione di ridare qualcosa di quanto ho ricevuto. Credevo che questo si realizzasse attraverso L’asilo nel bosco, mettendo lì il massimo delle mie capacità, ma mi rendo conto adesso che questo non è sufficiente. È bello, ma non posso sentirmi tranquilla nelle lussureggianti passeggiate se non trovo che questi sentieri approdino lì dove la bellezza è stata da tempo dimenticata e madre natura tenuta prigioniera e in lacrime. La strada che parte da “L’asilo nel bosco” ha come obbiettivo portare un po’ dei suoi tesori lì dove a stento il sole porge i suoi raggi.
In quel grigio ho letto anni di arretrato, di cure mancate, di carezze non ricevute, di sogni non coltivati e di drammi che cominciano ancora prima della nascita di questi ragazzi, i quali però ne pagano lo scotto. Ho sentito che è tempo di restituire qualcosa, che i bimbi, i fanciulli, gli adolescenti appartengono per responsabilità alla comunità tutta e la comunità parte da me. La dedizione dei maestri di strada è assoluta, ma non possono essere lasciati soli, perché per crescere un bambino ci vuole un villaggio e l’unica comunità da cui i ragazzi di strada sono stati attorniati è un mondo all’incontrario. Ci vogliono atti straordinari per rispondere ad un bisogno così giustamente grande.
Mi sono chiesta quale capacità ho da offrire oggi ed anche qual è un modo per arrivare lì pur non potendo andare, per far percepire il mio calore, ma innanzitutto, come ringraziarli per il grandissimo dono che mi hanno fatto permettendomi di incontrarli. Troppo spesso siamo lesti nelle aspettative e lenti nel ringraziare, nel porgere una nostra offerta.
Ho deciso di fare due crostate, una con farina di riso, perché un ragazzo fra loro è celiaco. È un primo passo, spero di riuscire a farne altri. Ho scelto una marmellata d’uva fragola regalatami dalla mia vicina di casa, l’uva l’avevamo raccolta insieme a casa di suo padre in una tardiva mattina di fine ottobre.
Quei ragazzi si meritano ciò di più prezioso che ognuno ha da offrire. Il miracolo è la comunità e sono convinta che molti cuori di donna, madre, sorella, nonna, zia, così come altrettanti cuori di uomo, padre, fratello, nonno, zio, traboccano di abbondanza, tanta da offrire atti, pensieri, cure, attenzioni altrettanto significative, maggiormente creative, unicamente competenti. In questo risiede il potere di travalicare quel confine invisibile delimitato da pochi minuti di macchina, pochi chilometri, che rischiano di segnare indelebilmente vite a me care e preziose.
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