Dissesto idrogeologico: i comuni virtuosi che lavorano per prevenire e mitigare i rischi
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In Italia il dissesto idrogeologico causa, ogni anno, un bilancio pesantissimo sia in termini di perdite di vite umane sia per gli ingenti danni economici. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono sempre più evidenti anche nel nostro paese – piogge sempre più intense intense concentrate in periodi sempre più brevi, che fanno esondare fiumi e franare colline travolgendo persone e cose – ma si continua a costruire in aree ad alto rischio di smottamenti e alluvioni.
Eppure, in questo quadro allarmante, ci sono anche buone notizie: in molti comuni italiani cominciano a diffondersi politiche virtuose di messa in sicurezza del territorio e di mitigazione del rischio idrogeologico, e la gestione oculata del territorio e la sicurezza della cittadinanza stanno diventando una priorità.
Ma prima di raccontare questi esempi virtuosi, è bene ricordare le cifre della gestione irresponsabile del territorio degli ultimi decenni. Secondo l’ultimo Rapporto 2013 dell’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) su 8.057 comuni italiani (dato ISTAT al 30 giugno 2014, nda) risulta che 6.633, cioè l’82%, sono classificati ad “elevata criticità idrogeologica”. In queste aree potenzialmente pericolose risiede quasi il 10% dell’intera popolazione italiana: oltre 5.700.000 nostri concittadini (corrispondenti a circa 2.450.000 famiglie) si trovano esposti, ogni giorno, al pericolo di frane o alluvioni. Su queste aree ad elevato rischio sono stati costruiti oltre 1.105.000 edifici residenziali (cioè almeno 2.860.000 abitazioni) ma l’aspetto più “paradossale” – come lo definisce il Rapporto ANCE – è che in queste zone si trovano anche 6.427 scuole (1 su 10 in Italia) e 554 ospedali (idem).
Pochi sanno che nel 2103 il solo dissesto idrogeologico ha causato anche in Italia oltre 3.700 nuovi “rifugiati ambientali” (o “sfollati”) secondo la definizione delle Nazioni Unite. Secondo l’IDCM (Internal Displacement Monitoring Centre) il problema dei rifugiati ambientali non riguarda solo Asia e Africa, ma anche l’Unione Europea: solo nel 2013 l’UE ha registrato circa 115.000 nuovi sfollati, di cui 3.700 proprio nel Belpaese.
Ma non è tutto, dall’International Disaster Database del CRED (Center for Research on the Epidemiology on Disaster) emerge che in Italia, nel decennio 2005-2014, alluvioni e smottamenti hanno causato circa 10.000 sfollati totali, con una media di 1.000 nuovi “rifugiati ambientali” ogni anno – dati superati solo dai devastanti terremoti dell’Aquila e dell’Emilia Romagna.
In Italia, quindi, il dissesto idrogeologico è la seconda causa, dopo i terremoti, di danni provocati da disastri naturali e ambientali. Con costi elevatissimi: 3.700 nuovi sfollati solo nel 2013, 10.400 negli ultimi 10 anni e circa 700.000 totali in poco più di un secolo, tra il 1900 e il 2010. Per non parlare delle vittime: almeno 12.600 – tra morti, dispersi e feriti – nel periodo 1900-2010 e ben 292 morti nel solo nell’ultimo decennio 2002-2013. Secondo il Rapporto ANCE, senza politiche lungimiranti ed efficaci di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico, tutte queste cifre sono destinate ad aumentare.
E veniamo, brevemente, ai costi economici: il costo complessivo dei danni causati dai disastri naturali (compresi i terremoti) dal 1944 a oggi, sarebbe di circa 242 miliardi di euro, con una media di 3,5 miliardi di euro all’anno, quando per la messa in sicurezza del territorio nazionale – secondo le stime dei diversi PAI nazionali (Piani Stralcio per l’Assetto Idrogeologico) – basterebbero “solo” 40 miliardi di euro per realizzare la totalità dei PAI finalizzati a “salvaguardare l’incolumità delle persone e ridurre al minimo i danni ai beni esposti”. Eppure lo Stato italiano preferisce continuare ad agire “in emergenza” con costi che sono, in media, più elevati degli interventi di prevenzione e riduzione del rischio indicati nei PAI.
Ed ecco finalmente la buona notizia: ci sono comuni italiani che hanno deciso di agire prima che sia troppo tardi, senza aspettare che accada l’ennesima tragedia o piovano interventi e risorse dall’alto. Sull’esempio dei comuni virtuosi che hanno deciso di porre fine ad usi speculativi e abusivi del loro territorio adottando i PGT (Piani di Gestione del Territorio) “a crescita zero”, tanti comuni italiani ad alto rischio idrogeologico hanno deciso di mettere al primo posto la sicurezza dei cittadini e hanno investito nella prevenzione e messa in sicurezza del loro territorio.
In una recente indagine dal titolo “Ecosistema Rischio 2013-Monitoraggio sulle attività delle amministrazioni comunali per la mitigazione del rischio idrogeologico”, Legambiente ha esaminato le azioni intraprese negli ultimi 10 anni dai comuni considerati a più alto rischio idrogeologico. Dal Rapporto emerge che svariati comuni italiani hanno già delocalizzato le strutture presenti nelle zone a rischio e abbattuto gli edifici abusivi costruiti in queste aree e che addirittura l’80% dei comuni esaminati ha recepito i PAI nel proprio piano urbanistico.
Secondo la classifica di Ecosistema Rischio 2013, i 3 comuni italiani più virtuosi nella mitigazione del rischio sono Calenzano (Firenze), Agnana Calabra (Reggio Calabria) e Monastero Bormida (Asti). Tutti e 3 hanno recepito i PAI e viene eseguita la manutenzione ordinaria dei corsi d’acqua e delle opere di difesa idraulica. In tutti sono state avviate procedure per la delocalizzazione delle strutture presenti nelle aree maggiormente esposte è stato organizzato un sistema locale ed efficiente di protezione civile con la partecipazione attiva dei cittadini.
In totale, i comuni italiani che hanno svolto “un ottimo lavoro di mitigazione del rischio” sono 7 (con un punteggio pari o superiore a 9), mentre quelli che hanno svolto “un buon lavoro di mitigazione” sono oltre 200. Tra i capoluoghi di provincia, le prime classificate sono le città di Belluno e Bolzano, grazie al recepimento dei PAI, all’assenza totale di strutture nelle aree a rischio e all’organizzazione di un sistema di protezione civile sempre aggiornato.
Sono diverse decine le amministrazioni che, in tutta Italia, hanno intrapreso azioni di delocalizzazione delle abitazioni dalle aree a rischio e sono una trentina di comuni che stanno dislocando anche gli insediamenti industriali. In questi comuni virtuosi, gli alvei dei fiumi non vengono più cementificati, tombinati o coperti allo scopo di urbanizzare le aree sovrastanti, né vengono alterate le dinamiche naturali dei corsi d’acqua. I vincoli di inedificabilità sono molto rigidi: vicino agli alvei e nelle zone a rischio smottamento non sono previste né abitazioni, né fabbricati industriali che, in caso di calamità naturali, potrebbero mettere in pericolo le vite dei dipendenti e l’intera comunità a causa dello sversamento di eventuali prodotti inquinanti nelle acque e nei terreni.
Queste azioni “dal basso” di prevenzione del rischio idrogeologico sono fondamentali: i sindaci sono la prima autorità di protezione civile e le amministrazioni locali hanno un ruolo determinante nella pianificazione urbanistica del territorio. I comuni hanno la possibilità di mitigare in modo efficace il rischio idrogeologico su più fronti: da un lato, nelle attività legate alle gestione ordinaria del territorio (pianificazione urbanistica, delocalizzazione di fabbricati dalle aree a rischio, adeguamento alle norme di salvaguardia dettate dalla pianificazione di bacino) e dall’altro nell’organizzazione locale di protezione civile (redazione di piani di emergenza che devono essere conosciuti dalla popolazione affinché sappia esattamente cosa fare e dove andare; organizzazione di soccorsi tempestivi ed efficaci in caso di alluvione o frana).
Si tratta di scelte coraggiose dal momento che, a causa del patto di stabilità e dei tagli nel trasferimento delle risorse dagli enti centrali a quelli periferici, spesso gli oneri di urbanizzazione servono a coprire la spesa corrente dei bilanci comunali. Ma la gestione oculata e responsabile del territorio e la sicurezza dei cittadini stanno diventando una priorità per molte amministrazioni italiane.
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