Io faccio così #32 – Barbara Pierro: integrare i rom a Scampia? Detto fatto!
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Campania - Ci sono storie che ti restano impresse più di altre, ti segnano, ti cambiano il modo di sentire e interpretare la realtà. Per me le vicende di cui sono protagoniste le donne che ho incontrato a Scampia sono proprio quel tipo di storia, qualcosa che divide la mia comprensione del mondo in un prima e un dopo, prima e dopo la tappa napoletana del mio viaggio in camper nell’Italia che Cambia.
In particolare mi riferisco all’incontro con Barbara Pierro, giovane avvocato, madre di due figlie e fondatrice quando aveva 22 anni di “chi rom e… chi no” che in napoletano si può tradurre anche come “chi dorme e chi no“.
In effetti i progetti portati avanti in questi 13 anni da Barbara e dai suoi soci si sono sempre mossi su un doppio binario. Da un lato la riappropriazione di spazi pubblici, l’integrazione bidirezionale dei rom, l’abbattimento dei confini; dall’altro il lavoro su un piano ancora più profondo e trasversale, complesso e multidimensionale: il risveglio delle coscienze nelle persone, in se stessi e negli altri, l’invito ai giovani – napoletani, rom e di qualunque altra cultura o etnia – ad agire, ad autodeterminarsi, a costruirsi un presente e un futuro degno di essere vissuto.
“Non lo faccio per gli altri, lo faccio per me” precisa Barbara quando la incontriamo. Per lei il lavoro sociale, il miglioramento del proprio contesto, il tentativo di costruire “microcircuiti virtuosi”, di mettere al centro l’arte, la bellezza, la relazione, sono qualcosa di imprescindibile, qualcosa che fa parte della sua natura e della sua vita e senza la quale non potrebbe sentirsi se stessa.
“Se non avessi lavorato ‘a chi rom e… chi no’ non avrei fatto l’avvocato. Il mondo dell’avvocatura mi stava stretto, ma poi ho deciso di andare avanti per loro, per difendere ‘gli ultimi'”.
Passeggiando per Scampia si rimane colpiti dal degrado, dallo squallore, dalla mancanza di marciapiedi, negozi, teatri, librerie, ristoranti. L’immaginario si accende e richiama immediatamente le storie di Gomorra e le “Vele” si mostrano nella loro crudezza ancora più inquietanti di quanto appaiano in televisione.
Proprio non ti aspetti che dietro questo fango e questo squallore, possano agire e riuscire così tanti progetti di straordinaria ordinarietà. Quello di Barbara è uno tra i tanti, ma forse meglio di tutti gli altri riassume la capacità di cambiare il mondo dal basso, ogni giorno, in ogni gesto.
A Scampia, l’ultima delle periferie, il ghetto di Napoli, infatti, c’era un ulteriore ghetto, quello dei rom, un ghetto nel ghetto, un ghetto da molti considerato “scontato”, “inevitabile”, perché “si sa, gli zingari vivono così”. Eppure, nel resto d’Europa i rom non vivono nei campi. Nell’ex Yugoslavia, mi racconta Barbara, i rom abitano in normali palazzi di periferie, mentre “i campi rom sono un’invenzione italiana!” E forse la gestione continua dell’emergenza fa comodo a qualcuno.
Il lavoro che portano avanti Barbara e gli altri, al contrario, cerca di agire proprio sulla logica opposta. Uscire dall’emergenza, pretendere la riqualificazione di spazi pubblici anche quando abusivi: “vogliamo sottrarli al degrado, restituirli alla comunità”.
Ed ecco la prima scuola autocostruita nel campo rom: “noi facevamo da braccianti, erano i rom a dirci come fare”. Un baracca, così la chiama Barbara, in cui bambini rom e bambini napoletani hanno iniziato a frequentare laboratori, a mescolarsi. “Prima abbiamo portato i bambini napoletani nel campo rom, poi quelli rom fuori al campo”.
Oggi sono nate coppie miste, napoletano-rom, che vivono in case “normali”, sono stati organizzati decine di campi estivi con famiglie napoletane e rom, sono stati avviati progetti teatrali che hanno portato questi ragazzi fuori dal ghetto, verso Napoli centro e hanno portato i ragazzi di Napoli centro a confrontarsi con realtà come quelle di Scampia: mi riferisco al progetto di Arrevuoto, di cui Barbara è tra i fondatori.
Col passare degli anni, però, le cose cambiavano e anche Barbara cresceva. “Una cosa era avere 22 anni, una cosa è averne 35, avere dei figli da mantenere”. Ed ecco la nuova sfida: creare occupazione, creare economia in un luogo in cui la mancanza di economia è alla base dello spaccio, del potere camorrista, del degrado assoluto. “Abbiamo creato una cooperativa e stiamo lavorando a questo nuovo progetto, la Kumpania. Tutto è iniziato ‘per caso’: durante le nostre attività le donne rom cucinavano per noi e per gli altri. Da qui l’idea: apriamo un ristorante gestito da donne rom e donne italiane, un luogo in cui queste donne si incontrino in cucina e sperimentino percorsi di emancipazione personale e professionale, per valorizzare e diffondere i rispettivi patrimoni culturali e gastronomici”.
Hanno vinto diversi concorsi e bandi e ora gli è stato assegnato uno spazio proprio sopra l’auditorium di Scampia. Se tutto va bene a settembre apriranno ufficialmente.
“Vogliamo abbattere gli stereotipi, sia quelli degli italiani verso i rom sia quelli dei rom verso gli italiani – e sono tanti! -. Vogliamo farlo qui, a Scampia, dove manca tutto, dove la gente non è abituata ad andare al ristorante, dove ci sono pochi soldi, dove tutto sembra impossibile; ma non ci sentiamo degli eroi. Crediamo che ognuno, nel suo piccolo, possa realizzare il suo grande cambiamento. Un processo che parte sempre dal personale e sfocia poi nel sociale, nel collettivo”.
Si tratta solo di sognare l’impossibile e realizzarlo, di non chiedersi mai se, ma sempre e semplicemente “come”, si tratta di costruire un nuovo immaginario collettivo. Questo e molto altro l’ho imparato a Scampia. Buon lavoro ragazze.
Daniel Tarozzi
Vai al sito di “chi rom e… chi no”
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