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Ancona, Marche - Oggi inauguriamo un nuovo appuntamento che ogni settimana vi terrà compagnia. Ogni giovedì vi racconteremo la storia di una persona o di un gruppo di persone che hanno deciso di prendere in mano la propria vita e cambiarla. Persone di cui nessuno parla ma che a poco a poco, dal basso, a dispetto della crisi, stanno intessendo un nuovo tessuto sociale e rimodellando l’aspetto del nostro paese. Sono loro l’Italia che cambia.
In questa sezione pubblicheremo i video, le foto e i racconti delle realtà incontrate da Daniel Tarozzi nel suo viaggio nell’Italia che Cambia. Quelle escluse dal libro “Io faccio così” per motivi di spazio, quelle solo accennate e quelle che la redazione de “L’Italia che Cambia” continuerà a raccogliere nei prossimi mesi.
La prima storia che vi raccontiamo è quella di un imprenditore marchigiano. Giusto due parole su questa scelta. Partiamo dalle Marche che in un certo senso sono l’emblema dell’Italia che vogliamo raccontare. Stanno proprio lì, nel mezzo dello stivale, sono una delle regioni in cui si vive meglio e più a lungo, con i maggiori tassi di cooperatività, eppure per molti restano una sorta di oggetto oscuro. Qui più che altrove le antiche tradizioni contadine si sono fuse con un crescente fermento sociale e culturale, ma in pochi ne parlano, quasi nessuno le conosce. Sarà perché non ci sono grandi città. O forse proprio perché le cose funzionano più che altrove e non c’è niente di cui lamentarsi. Le Marche potrebbero essere un modello, eppure vengono ignorate. Proprio come i nostri attori silenziosi del cambiamento.
Ma partiamo anche da un imprenditore. Uno che crea lavoro e ricchezza. Vogliamo infatti mettere fin da subito una croce su quel luogo comune che vuole che con le buone pratiche non si possa campare, che siano ottime per il volontariato ma non certo per portare a casa la pagnotta. Roba da idealisti o da sognatori, a volte persino da pazzi. Non è così, come forse già sapete o avrete modo di scoprire se ci vorrete seguire.
Veniamo al protagonista della storia di oggi. Enrico Loccioni è un noto imprenditore marchigiano che fa cose davvero strane. Mentre tutti licenziano lui assume. Mentre gli altri si lamentano della crisi, lui si preoccupa, fra il serio e il divertito, di non aver mai abbastanza risorse umane per soddisfare tutte le occasioni lavorative che si presentano. Mentre tutti vedono nei giovani una manodopera gratuita da sfruttare a tempo determinato, lui ci vede un’incredibile risorsa di entusiasmo e conoscenza su cui investire. E in più si occupa di lanciare progetti per riqualificare e valorizzare il territorio nel totale rispetto dell’ambiente. Cose strane. Eppure, con questa mentalità davvero fuori dal comune, Loggioni riesce a mandare avanti un’azienda che fa profitto e che dà lavoro a circa 150 persone, quasi tutte del territorio.
Siamo a Cupramontana, nell’anconetano. Il Gruppo Loccioni si occupa – recita il sito – di integrare “idee, persone e tecnologie nello sviluppo di sistemi automatici di misura e controllo, per migliorare la qualità, l’efficienza e la sostenibilità di prodotti, processi ed edifici.” In altre parole non crea un prodotto, ma idee e soluzioni per i propri clienti; tant’è che l’attività viene classificata come “impresa della conoscenza”. Prima ancora di capire ciò che fanno, però, a noi interessa comprendere come lo fanno. Già: cosa permette a questa realtà di rappresentare una così bella eccezione alla norma del desolante panorama aziendale italiano? Cosa gli ha consentito di vincere per sei anni consecutivi il premio “Best Workplace Italia”?
“Il segreto -ci spiega Loccioni- sta in un modello di impresa che guarda ovviamente al profitto ma vi antepone l’aspetto dei valori, delle persone”. Sembra uno slogan già sentito, ma in questo caso non sono solo parole vuote. Questo tipo di atteggiamento infatti sta alla base dell’intero modello aziendale che il gruppo è andato costruendo negli ultimi 50 anni. “Ognuno qui fa quello che ama fare, viene spinto a seguire i propri interessi e talenti per trovare la giusta collocazione. Non esiste il lavoro ripetitivo”.
Niente routine, poche ripetizioni. Di contro tanta iniziativa, inventiva, apertura mentale, voglia di fare. Un tipo di mentalità che inevitabilmente premia i più giovani, al punto che l’età media dei 150 lavoratori Loccioni è di 32 anni. “Questo approccio ci ha permesso negli anni di continuare a cercare persone giovani, che arrivano fresche da un percorso di studi. Oggi è il sapere, la conoscenza che dobbiamo valorizzare: è questa la grande novità che ci distingue ad esempio dal modello mezzadrile marchigiano, storicamente caratterizzato dall’abbondanza di lavoro ma dall’assenza d’istruzione. Negli ultimi 50 anni le famiglie si sono potute permettere di investire in istruzione: il nostro compito è quello di sfruttare a piene mani questo investimento, creare un’impresa basata sulla conoscenza, dove ognuno ci deve mettere del proprio”.
In quest’ottica, persino il fatto che molti lavoratori decidano di lasciare il gruppo per intraprendere iniziative individuali viene visto come un sintomo del buon funzionamento del modello. “Piu di ottanta persone negli anni hanno scelto di abbandonare il gruppo per mettersi in proprio, da una a tre persone all’anno. Tutto questo è estremamente positivo – ci spiega Loccioni – è un segno che il gruppo fa crescere le persone attraverso il lavoro e le aiuta ad assumersi una responsabilità; in altre parole insegna loro la base dell’attività imprenditoriale. Qui il coraggio è collettivo”.
Un coraggio che trova le proprie radici nella tradizione più nobile dell’imprenditoria marchigiana e nazionale. “Abbiamo molti modelli, che ci fanno da contorno. Vogliamo imitare il coraggio di Aristide Merloni che ritornando da Torino decise di mettere su un’industria qua, dove c’erano soltanto pecore e neppure una strada per arrivarci. Oppure la capacità di un uomo pubblico come Enrico Mattei”. Tuttavia c’è un modello cui più di ogni altro il gruppo si ispira in maniera del tutto naturale e spontanea. “Io ho fatto il viaggio di nozze nel ’73: sono stato ad Ivrea per capire dove stava l’Olivetti”, ci confida Loccioni. Non sappiamo come la prese la moglie ai tempi, ma sappiamo che nacque allora nel 24enne Loccioni un sentimento di stima profondo verso il grande innovatore dell’imprenditoria italiana (e mondiale). Un legame duraturo, che ha portato il nostro a sviluppare una collana dedicata agli Olivetti.
“L’Olivetti è un esempio di come considerare il lavoro ed i lavoratori, di come disegnare i prodotti, di fare cose belle, con un alto senso estetico. Ma è anche un esempio di come disegnare il territorio”, ci spiega Enrico. Anche il Gruppo Loccioni ha cercato negli anni di “disegnare il territorio”, costruendo con esso un rapporto profondo. “I nostri lavoratori sono quasi tutti marchigiani, c’è un’estrema attenzione a che le persone non vivano lontano da qua più di mezz’ora di macchina: è giusto valorizzare i talenti di questo territorio. Fra vivere questo territorio e alloggiarlo abbiamo scelto la prima opzione. Il territorio è una risorsa; la parte pubblica deve vedere nell’impresa un soggetto che sul territorio ci vive lo alimenta, non un soggetto mordi e fuggi”.
Per far questo il gruppo porta avanti da anni alcuni progetti di riqualificazione e valorizzazione territoriale. “Già a partire da 7 anni fa ci siamo dedicati all’ambiente e alla sostenibilità, a partire dal posto di lavoro, per renderlo più confortevole. Abbiamo creato case carbon neutral: 6 appartamenti passivi senza bollette da pagare dove vivono i nostri ragazzi. Poi abbiamo lavorato sul fiume che scorre qua vicino: per l’incuria era diventato una minaccia, noi l’abbiamo trasformato in risorsa, ne traiamo energia con la vite di archimede, utilizziamo il materiale che porta a valle.”
Questo legame viscerale con il territorio circostante ha radici antiche. “Qui non ci sono grossi centri, le imprese sono distribuite sul territorio. Storicamente i contadini vivevano le terre che coltivavano per cui se ne prendevano cura, era loro interesse, per questo è rimasto tutto cosi preservato. Anche questa è responsabilità individuale.
Così Enrico Loccioni ed il suo gruppo di affiatati collaboratori rafforzano ogni giorno le proprie radici e portano avanti la loro idea molto concreta di cambiamento. “Si dice che dovremmo lasciare questo pianeta un po’ meglio di come l’abbiamo trovato – ci dice Loccioni in conclusione -, per farlo noi non parliamo dei massimi sistemi. Semplicemente partiamo dalle nostre azioni locali ma le iscriviamo in un orizzonte globale.” D’altronde, come recita un vecchio detto anconetano, “A chiacarà nun zze sbùgia un còrnu”, i problemi non si risolvono certo con le chiacchiere.
Per saperne di più:
Il sito del Gruppo Loccioni: www.loccioni.com
Il sito della Fondazione Adriano Olivetti: www.fondazioneadrianolivetti.it
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